2005. Il suicidio, la foresta e l’isolamento: Last days.
2015. Il suicidio, la foresta e l’isolamento: La foresta dei sogni.
La differenza? La sceneggiatura.
Gus Van Sant concludeva nel 2005 la sua trilogia della morte. Il viso perfetto e bellissimo di Michael Pitt si prestava ad un racconto pauroso, incredibilmente malinconico. Van Sant si era reinventato Kurt Cobain, leggenda degli anni ’90, celebre tossicodipendente e conosciuto (anche) per essersi sparato un colpo di fucile in testa. Con La foresta dei sogni speravo di rivivere l’atmosfera funerea ed onirica che pervadeva Last days, lo stesso senso di disagio ed ‘imminenza’ che ha fatto del regista di Paranoid park ed Elephant uno dei pilastri del cinema moderno.
Gerry e L’amore che resta avevano diviso il pubblico, Drugstore cowboy è diventato un manifesto del cinema indie, Will Hunting – Genio ribelle è un cult e Milk ha dato giustizia ad un personaggio simbolo della comunità omosessuale. ‘Gus’ nella sua carriera si è barcamenato con grande mestiere fra il cinema commerciale e quello sperimentale, riscuotendo per entrambi un grande successo. Nessuno, nel cinema contemporaneo, ci riesce come lui. Nessuno. Nessuno riesce ad affrontare una sceneggiatura con due cifre stilistiche opposte come lui, tanto che fra Milk e Paranoid park è quasi impossibile trovare un anello di congiunzione.
Nonostante le recensioni terribili e i fischi di cui la pellicola è stata vittima a Cannes, le basse aspettative con cui ho comprato il biglietto e lo scetticismo per una sceneggiatura non sua, la voglia di vedere La foresta dei sogni (The sea of trees) era comunque alta. Il guaio è che la pellicola è un grosso, gigantesco e imperdonabile spreco di talento, conseguenza diretta di una storia dove è vietato “osare”.
Matthew McConaughey interpreta Arthur Brennan, uno scienziato professore precario all’università, il quale, depresso a causa di un grave evento nella sua vita, decide di uccidersi nella foresta di Aokigahara, situata ai piedi del monte Fuji. Lì incontrerà Takumi Nakamura, interpretato da Ken Watanabe, un uomo giapponese che vaga nella foresta da due giorni e che, probabilmente, si è recato lì per lo stesso motivo dell’americano. I due stringeranno un’amicizia che spingerà McConaughey a riflettere sulla sua scelta. La vicenda viene spesso interrotta da vari flashbacks di Arthur, riguardanti sua moglie Joan Brennan ( Naomi Watts), agente immobiliare alcolizzata.
La storia procede zoppicando. La foresta dovrebbe essere la protagonista del film e, soprattutto, dovrebbe impaurire lo spettatore. Quando mai nel cinema si arrotonda per difetto?
Aokigahara è diventata famosa per essere la foresta dei suicidi, non proprio dei ‘sogni’, tanto da spingere il governo giapponese a nascondere il numero effettivo dei morti, edulcorando le statistiche anno dopo anno.
Il terrore e la tensione dovrebbero avvolgere lo spettatore, renderlo partecipe della vicenda emotiva e fisica di Takumi ed Arthur, eppure tranne un cadavere, semi-nascosto dal buio, non si vedono copri e corde, non ci si imbatte in scheletri e corpi e non è possibile immedesimarsi nella foresta. Tutto sembra artificiale, costruito, pianificato. Non si cerca mai di spaventare, anche minimamente chi guarda il film, al contrario, la sceneggiatura prova a distrarci. Sì, perché Chris Sparling è riuscito nella ‘meravigliosa’ impresa di scrivere una sceneggiatura che si auto-distrugge.
I colpi di scena non esistono, i personaggi sono piatti e già visti, poco caratterizzati e quasi macchiette, non per colpa del trio di magnifici Watanabe, McConaughey e Watts, quanto per uno script che non sa dove va, che distrugge tutto il poco che costruisce, scena dopo scena, fotogramma dove fotogramma, prendendo per scemo chi guarda il film.
L’esempio migliore è quello legata ai flashback di Arthur e la moglie, i quali dovrebbero fungere come film a sé, ovvero raccontare una storia che intrighi e incuriosisca lo spettatore. Invece, oltre ad essere tremendamente noiosi, essi si rivelano inutili, poiché a metà del film Arthur rivela all’amico (spoiler) che la moglie è morta, descrivendogli anche per filo e per segno, in quella che è la scena più brutta del film, il rapporto che i due avevano. Questo potrebbe avere senso in funzione di un colpo di scena che purtroppo non si verifica, rendendo la storia fra McConaughey e la Watts uno dei tanti filler terribili di una storia che altrimenti non sarebbe mai arrivata a due ore.
Van Sant, infatti, riesce ad allungare il brodo con continui primissimi piani di oggetti, senza rinunciare ad indugiare su ogni movimento di Arthur e su ogni parola che i protagonisti emettono. Nessun regista avrebbe fatto di meglio. La sceneggiatura manca di mordente, non ha coraggio e non osa mai, ci prende per mano e ci spiega tutto; oltre a questo si sviluppi attraverso espedienti narrativi pigri come gli ‘spiriti’ o la sequenza indegna di Joan malata.
In conclusione, l’ambizione del film era elevata e gli strumenti c’erano. Tre attori rinomati, un grandissimo regista e una produzione in grado di coprire i costi del film senza troppi problemi, tuttavia ne esce una pellicola molle, priva di una vera ispirazione e di mordente, senza guizzi a livello di sceneggiatura e assolutamente non in grado di trasmettere qualcosa. Un film del genere lo avrebbe potuto voler fare un mostro sacro come Tarkovskij, e lo stesso Van Sant, se lo avesse scritto, avrebbe avuto risultati molto diversi.
Meglio recuperare Last days e ammirare il Cobain di Pitt.
p.s.: La parte migliore, da fan, sono le due sequenze musicali con gli Alt-j, di nuovo sul grande schermo dopo la cover di Buffalo in Il lato positivo – Silver Linings Playbook.
La Foresta dei Sogni: Gus Van Sant prova a suicidarsi
Il film con Matthew McConaughey, Ken Watanabe e Naomi Watts cade vittima di una sceneggiatura capace di vanificare ogni sforzo.