Personaggio irascibile e controverso, a tratti feroce, H.G. Clouzot fu protagonista di una delle più grandi ingiustizie artistiche perpetrata nel secolo scorso. Scrittore, regista e documentarista, nonostante avesse confezionato almeno tre capolavori da cineteca, Il Corvo (1943), Vite vendute (1953) e i Diabolici (1954), fu ostracizzato tanto in patria quanto all’estero a causa delle presunte simpatie per il regime nazista.
Accuse pretestuose che verranno poi riviste e corrette da tutti i più grandi detrattori, in primis Francois Truffaut e i suoi Cahiers du Cinéma.
All’interno di una produzione votata alle tinte fosche del noir metropolitano, Vite Vendute sposta l’azione in un paesino dell’ america centrale, ricreato per l’occasione in Camargue; ma non troviamo niente di esotico e solare, il paese è una prigione a cielo aperto, un serraglio di avventurieri e criminali alla ricerca di guadagni facili, all’ombra della grande azienda petrolifera americana, simbolo di un capitalismo feroce che sfrutta i diseredati e i miserabili per i lavori più pericolosi. La critica esplicita al grande sistema costò al film una distribuzione ridotta sul mercato americano; dalla versione europea furono tagliati 20 minuti considerati poco adatti al pubblico d’oltre oceano.
L’interminabile prologo del film descrive alla perfezione l’immobilità di quell’inferno cocente, i protagonisti sono uomini senza passato, condannati ad un’esistenza sporca e paludosa che riversano le proprie frustrazioni sull’unica figura femminile della storia, lei che sembra essere rimasta la sola a gettare lo sguardo oltre la cortina delle proprie miserie, alla ricerca di un’ultima scintilla di umanità.
“Lascialo, non lo vedi? È un morto che cammina!
E noi, non siamo morti che camminano?”
L’occasione di fuga e rivalsa si presenta con la svolta narrativa del film: un carico di nitroglicerina deve essere trasportato fino ad un pozzo petrolifero in fiamme, a centinaia di chilometri di distanza e la compagnia recluta i nostri “eroi” per la missione suicida. Mario (Yves Montand), un lavoratore a giornata e il piccolo truffatore Jo (Charles Vanel); il cinico ed egocentrico tedesco Bimba (Peter Van Eyck) e un uomo molto malato in attesa della morte (Folco Lulli). La continua e palpabile tensione che percorrerà il film fino alle battute finali, metterà a nudo la vera personalità dei protagonisti, le proprie fragilità, ribaltando il quadro di assurda virilità e disincanto così ostentati nella ormai vecchia e comoda immobilità del paese.
In questa svolta il racconto diventa un film d’azione, ma un tipo di azione come non si era mai vista prima. Il regista elabora il tempo della suspense rimanendo fedele al suo credo fondamentale: il contrasto, base fondante della sua idea di cinema. La dilatazione del tempo renderà il viaggio un’esperienza disturbante, anche allo spettatore. Il lentissimo convoglio faticherà ad ogni svolta, ogni ostacolo sul cammino si trasformerà in una crudele prova di sopravvivenza e sopraffazione.
La contrastata e meravigliosa fotografia di Armand Thirard indugia su ogni minimo dettaglio di quell’odissea, e sembra godere nel raccontare più o meno esplicitamente la sofferenza di quei disperati, in una dimensione quasi sadica di racconto horror. L’immagine di Vanel agonizzante, sommerso in una pozza di vero petrolio, mentre il compagno lo investe con il camion è talmente intensa da risultare efficace anche ai nostri occhi, decisamente più smaliziati dopo anni di torture-porn e esplosioni di violenza sempre più grottesca.
Il dramma è presente in ogni fotogramma, possiamo toccarlo, annusarlo quasi, anche se il regista non ce lo mostra esplicitamente. Memorabile la scena nella quale una fragorosa e distante esplosione evoca la morte sotto forma di un breve spostamento d’aria che fa volare via il tabacco da una cartina che sta per essere arrotolata.
A dispetto di un intreccio così elementare e a tratti schematico, il film è di una potenza senza precedenti, durante la visione si ha una sensazione quasi sgradevole di ottimo e brutale cinema.
In fin dei conti la trama de Il salario della paura (titolo originale del film), sembra essere solo un pretesto per mettere in scena un dramma esistenziale camuffato da road movie a chiare tinte orrorifiche. Un racconto di viaggio ante-litteram, un viaggio la cui destinazione diventa però importante. Meglio, è la sola cosa che conta. Gli sforzi saranno disumani, la tensione inimmaginabile, la fine ineluttabile.
Un meritato salario.
Fu un apologo sfortunato e nichilista delle imprese senza speranza che rivitalizzò, finalmente, la carriera del regista e rilanciò quella di Yves Montand. Palma d’oro a Cannes e Orso d’oro a Berlino nel 1953.