Claudio Giovannesi è un grande esploratore.
Si muove fra le macerie della vita quotidiana, come i migliori neorealisti, scovando dei piccoli grandi attori che attori non sono e racconta storie di “finzione” che finzione non sono. Alì ha gli occhi azzurri era la storia vera di Nader e i suoi genitori, la fidanzata e l’amico erano i suoi veri compagni di vita, quelli che con lui avevano condiviso l’odissea di sette giorni che lo aveva portato a dormire un po’ ovunque, fra letti di fortuna e scatoloni sul ciglio della strada.
Per il suo terzo lungometraggio, quindi, il regista romani ha seguito lo stesso “credo”. Sei mesi passati in un carcere minorile romano, poi la ricerca, l’esplorazione e infine la scoperta del “corpo” giusto.
Daphne (Daphne Scoccia) è una dura. Ci viene presentata alla stazione mentre rapina le ragazze dei loro telefoni, si avvicina a loro, estrae il coltello ed esige che le venga consegnato il telefono. È una “nomade” come Nader, dorme da una amica e non vuole tornare in comunità. Dopo una rapina finita male viene condannata a una pena di circa un anno in un carcere minorile di Roma, nel quale conoscerà Josh (Josciua Allegri). I due si innamoreranno e dovranno fare i conti con una storia d’amore difficile nel luogo e nell’età più difficili.
Fiore, in fin dei conti, è una fiaba. Romeo e Giulietta che si incontrano nel ventiduesimo secolo in carcere e cercano di stare insieme contro tutto e tutti. La storia d’amore è banale, pretestuosa, fatta di momenti smielati e cliché da filmettino adolescenziale, di sguardi alla “dolce stil novo”, pieni di amor cortese e ideali romantici da quattro soldi.
I due si innamorano per ragioni sconosciute e la storia procede in modo prevedibile, banale e pronosticabile, lasciando un amore in bocca che raramente si prova.
Gli “amori impossibili”, topos classico della letteratura, funzionano perché provocano nello spettatore un senso di ingiustizia, di collera verso chi li osteggia e li frena e di pietà e compassione verso il giovane e la giovane che, per colpa dell’ingiustizia, non riescono ad unirsi.
L’ingiustizia in Fiore è rappresentata dall’autorità e dalla legge, dall’assistente tediosissima che minaccia continuamente Daphne di fare rapporto e che le confisca il rossetto la sera di capodanno.
Il “milieu” della storia è inopportuno e rende la vicenda tanto irrealistica da debordare oltre i confini della fiaba, relegando lo spettatore ad un film noiosetto e auspicabile, buono per fare compagnia ai pensionati nel primo pomeriggio.
Nel terzo atto, addirittura, tutto diventa brodo allungato e l’Evento (con la maiuscola), che lo spettatore si aspetta, fatica a giungere e ci si ritrova ad attendere e attendere che succeda qualcosa e come sosteneva Camus, gli esseri umani hanno bisogno che qualcosa “accada”.
Il dispiacere resta per due ragioni: Giovannesi è un bravissimo cineasta, giovane e talentuoso, lo ha pienamente dimostrato con un piccolo gioiello come Alì ha gli occhi azzurri e sicuramente Fiore non pregiudicherà il suo futuro (speriamo roseo) nel mondo del cinema; la seconda è che il film in dei momenti funziona strepitosamente.
Valerio Mastandrea interpreta il padre di Daphne, un bravo uomo che è uscito dopo circa dieci anni dal carcere e adesso vive a casa di una donna e il figlio di quest’ultima.
Il padre di Daphne è fragile, impaurito, disadattato, non risponde alle chiamate della figlia perché non forse non si sente all’altezza del suo ruolo paterno e Fiore di questo si sarebbe dovuto occupare, della difficoltà a ripartire dopo il carcere, di come per un uomo sia difficile tornare alla “vita” dopo aver perso tutti quegli anni dietro alle sbarre e soprattutto, di quanto sia doloroso per una adolescente perdere i migliori anni della vita dietro le sbarre.
Eppure tutto è dolce e tranquillo, intriso di amor sacro, dalla compagna buona e disponibile di Mastandrea alle detenute che vivono con Daphne, che ridono e scherzano e si amano e tutto ciò che ne consegue.
L’amor profano appare una volta sola, nella scena più interessante e che faceva ben sperare per il resto del film: Daphne, una notte, davanti alla finestra, si toglie la maglietta per mostrare il seno al ragazzo amato, il quale sembra rimanere impietrito e incapace di rispondere. Perché non continuare su quella strada?
Manca tanto il desiderio, il corpo, la sessualità e i loro sguardi sono casti e puri, privi di attrazione, in un’età in cui ragazze e ragazzi dovrebbero essere ossessionati dal fisico e dal corpo, dal contatto che costituisce la base di un rapporto, in poche parole, dalla “necessità”.
La realtà è necessità, la finzione è romanticismo; per un regista che si prefigge di raccontare la realtà sporca e dura delle carceri minorili,l’amor cortese dovrebbe essere l’ultima cosa a cui pensare.
Fiore allora è uno scialbo film romantico, ambientato in un luogo che dovrebbe essere “difficile” ma che difficile non è, nel quale ad opporsi al loro amore è la legge che li ha condannati e l’assistente che la minaccia di fare rapporto.
Non si capisce dove voglia parare il regista e la vicenda è tirata incredibilmente per le lunghe.
Il cinema coraggioso è un’altra cosa. Definire Fiore un film “difficile” farà rivoltare Claudio Caligari nella tomba.