In fondo nel cinema di Richard Linklater c’è tutto quello che vogliamo per trascorrere due ore al cinema. Il regista americano possiede una mano leggera ma incredibilmente capace di scavare in profondità, con una delicatezza che riesce a scandagliare i personaggi che animano le sue pellicole. Dopo una carriera in cui abbiamo già goduto dei sui film (impossibile dimenticare il Jack Black di School of Rock) l’autore di Houston torna alla carica con un’opera corale. Una panoramica sui giocatori che compongono la squadra di baseball del college, tra matricole e veterani, tra serate in discoteca, sbornie infinite, sfide sportive e non alla ricerca del maschio alfa del gruppo, corteggiamenti che spesso non finiscono a buon fine, allenamenti in cui escono fuori gli attributi di questi giovani. Non c’è un attimo di sosta, non c’è tempo di far finire una giornata che un’altra prende forma e ti cinge con la sua gioventù, con la sua voglia irrefrenabile di dare un senso al tempo, alle azioni, alla pazza gioia della giovinezza. L’ingrediente segreto di Tutti vogliono qualcosa (Everybody wants some) consta nel lieve messaggio subliminale che la anima e si chiama nostalgia, da non considerare nella sua accezione classica di “dolore del ritorno” bensì come uno sguardo solo lievemente malinconico su un’America che non c’è più, in cui molti incubi generati dallo stesso Zio Sam non permeassero in maniera indissolubile il substrato sociale degli States. Nella pellicola c’è sempre un sorriso, c’è sempre un gesto che depotenzia, c’è sempre uno sguardo positivo. Negli anni in cui sedimentava nell’animo degli americani la teoria del pazzo, un tipo di politica estera che puntava a spaventare i propri nemici convincendoli che li si poteva attaccare con reazioni sproporzionate, Linklater ci mostra la faccia buona della medaglia, una sorta di modello sostenibile dell’american way, in cui esiste la competizione ma anche il rispetto, in cui si trova la voglia di emergere ma non di sopraffare l’altro, in cui vige la meritocrazia senza la soppressione dello sconfitto. Si può dunque definire politica questa pellicola? Credo di si, a patto di far rientrare questa definizione in un’accezione più ampia di visione o di indirizzo delle dinamiche sociali e di interazione dei singoli. Altro elemento portante di questa commedia è la sua coralità, la sua capacità di mettere sulla scena contemporaneamente una moltitudine di personaggi che interagiscono tra di loro come guidati da un abile direttore di orchestra. Dai personaggi primari a quelli secondari ognuno riesce a ritagliarsi il suo spicchio di gloria, rimanendo impresso nella nostra memoria. Se tutti vogliono qualcosa, è palese che Linklater è riuscito a donare quel qualcosa a chi cerca ancora un cinema fondato su una profonda leggerezza. Quindi come cantano i Cars alla fine del film: “let the good times roll, let them knock you around…”
Tutti vogliono qualcosa: gli USA ideali di Linklater
Il geniale regista statunitense ci regala uno sguardo quasi politico su un'altra idea di America.