I Teenage Mutant Ninja Turtles scolpiti nell’immaginario collettivo hanno ben poco a che fare con le crude chine del fumetto di Kevin Eastman e Peter Laird su cui trovarono i natali nell’ormai lontano 1984. Sono piuttosto il risultato della popolarità dell’omonimo cartoon CBS del 1987, che con 10 stagioni e 193 episodi entrò nei cuori dei bambini di tutto il mondo insieme alla ricchissima linea di giocattoli che dal 1988 venne prodotta dalla Playmate Toys. C’è da dire che le tartarughe ninja sono ancora vive e lottano con noi, e che quel franchise vincente è riuscito a sopravvivere agli ultimi trent’anni e ha conosciuto innumerevoli declinazioni, tutte comunque piuttosto fedeli a dei punti saldi che, rimanendo tali mentre tutto il resto cambiava, hanno definito lo standard di base per i personaggi. E poi è arrivato Michael Bay, che, non pago di aver rovinato la nostra infanzia facendo di Transformers uno dei franchise più intollerabilmente reboanti della storia del cinema, ha prodotto un nuovo live action delle Tartarughe Ninja suscitando disapprovazione e perplessità tra i fan vecchi e meno vecchi. Dei giganti di due metri e mezzo con grosse narici, labbra carnose, i pettorali scolpiti, un punto vita invidiabile e un abbigliamento degno di un istituto di igiene mentale.
Sulla opinabilità delle scelte fatte per il reboot cinematografico del 2014 è stato già detto molto e in questa sede non è il caso di rinverdire il dolore per i pessimo creature design di Jared Krichevsky (è lui che dovete incolpare); quel che però salta subito agli occhi è che in questo nuovo installment la produzione ha operato una grossa sterzata in termini di fedeltà al materiale originale e ha portato sullo schermo con grande rispetto per la tradizione del franchise una serie di iconici personaggi (il ‘cervellone’ Krang con il suo esoscheletro robotico, gli sgherri Rocksteady e Bebop, il mitico van spara-tombini e il technodome). In compenso Casey Jones (lo Stephen Amell di Arrow) è un personaggio di incredibile inconsistenza, il ‘temibile’ Shredder è poco più che un demente vestito di nero e Neil Degrasse Tyson-Baxter Stockman è chiaramente stato inserito per esser poi sviluppato in un eventuale futuro terzo capitolo.
Via Jonathan Lieberman dalla sedia della regia, sostituito dall’ancor più malleabile Dave Green (a quanto pare ora la Disney non è l’unica a puntare su quasi-esordienti per le trasposizioni live action di vecchi cartoon), mentre gli sceneggiatori Appelbaum e Nemec rimangono ai loro posti perché la pellicola precedente, pur bistrattata da critica e pubblico (si è guadagnata il famigerato pomodoro marcio) ha comunque incassato 493 milioni di dollari a fronte di un budget di 125 milioni. Il problema è che se il primo film poteva imputare la scarsa originalità a una storia d’origini ormai trita e ritrita – e solo appena aggiornata –, la seconda pellicola non ha alcuna scusante per il turbine di noia in cui trascina lo spettatore per un’ora e cinquantadue minuti che, nella percezione del sottoscritto, sono durati almeno il doppio (il tanto vituperato Batman V Superman, che in confronto è un capolavoro senza l’ombra di un difetto, sembra un telefilmetto da un quarto d’ora).
Tartarughe Ninja – Fuori dall’ombra ha la solidità narrativa di un videogioco di serie B, con eventi che si susseguono meccanicamente mentre coinvolgono personaggi privi del benché minimo approfondimento, in una sarabanda intollerabile di azione soporifera e di esasperate esagerazioni (basti il ‘volo’ tra i grattacieli nella scena d’apertura a cristallizzare un’idea di cinema fracassona e iper-spettacolare che, diciamolo chiaramente, ormai è ben al di sotto delle più modeste aspettative).
Il problema è che il gigante Disney (leggi Marvel Studios e Lucasfilm) ha dimostrato al mondo che è possibile non rinunciare alla qualità eppure fare pellicole zeppe di effetti speciali e d’azione, capaci di parlare ai padri come ai figli, di trattare con rispetto il materiale originale e di mettere in moto una macchina di merchandising inarrestabile: in poche parole quella che vorrebbe essere chiaramente la mission di questo franchise, ma che viene mancata clamorosamente. Non bastano una CGI sotto steroidi – e per questo poco appassionante, aggiungo – e movimenti di macchina da mal di mare per farci brillare gli occhi, piuttosto dateci personaggi solidi e una storia che faccia trasparire un minimo sforzo di stesura; e se dev’esserci solo azione, che almeno valga un centesimo di quella del Miller di Mad Max: Fury Road!
Tartarughe Ninja – Fuori dall’ombra è la riproposizione pedissequa del format standard del blockbuster kitsch e senz’anima, ma è anche la dimostrazione di come – al momento – prodotti capaci di incontrare il gusto del mercato asiatico siano destinati a una pessima sorte in Occidente. Il caso più emblematico è sicuramente Warcraft di Duncan Jones, i cui 46 milioni di incasso sul mercato domestico a fronte di un budget di 160.000.000$ ne farebbero un flop clamoroso, se non fosse per i 221 milioni di dollari raccolti in Cina. O si pensi anche al recente ‘cappa e spada’ Dragon Blade, che ha sì incassato 117 milioni nel paese del sol levante, ma ha raccolto appena 74.000$ (sì, settantaquattromila) negli USA. Questo nuovo film sulle Tartarughe Ninja rappresenta proprio l’ennesimo avvicinamento di Hollywood a Pechino, dato che i giganti cinesi Alibaba Pictures e Wanda hanno partecipato in modo significativo allo sforzo produttivo, ma quando una pellicola costata 135 milioni apre con soli 25 milioni in Cina (dove per ora il botteghino è ferma a quota 50) e stagna su un totale di 80 in USA, allora qualcosa che non va nel film dev’esserci senza dubbio, a prescindere dal fattore culturale.
In poche parole Tartarughe Ninja – Fuori dall’ombra è una pellicola confezionata senza grande passione e senza l’ombra di qualche idea, eppure richiamerà un certo pubblico a prescindere, dato che parliamo comunque di un prodotto che fa leva su una licenza molto amata e promette tanta azione e tanta CGI in un periodo in cui le sale non scoppiano di film.
Unica vera gioia della pellicola, per chi scrive, è il sempre eccellente Will Arnett, il cui personaggio ha subìto un’evoluzione che finalmente lo rende perfettamente nelle corde dell’attore feticcio di Netflix e che ogni volta che è in scena ci regala qualche momento di insperato e sincero divertimento.
PS: la colonna sonora di Steve Jablonski (che ha firmato tutti i Transformers di Bay) pretende di commentare con temi epici e drammatici incredibilmente simili a quelli del Batman Begins di Zimmer le scene dei nostri ragazzoni verdi che si divertono a sgusciare tra i grattacieli per andarsi a vedere una partita di basket mentre mangiano la pizza. Il tono, Jablonoski. Il tono è (e sarebbe) tutto. Non ci siamo proprio.
Tartarughe Ninja: fuori dall’ombra poco da dire
La formula del nuovo Tartarughe Ninja è quella del blockbuster più standardizzato, ma il risultato è tutt'altro che appetibile.