Tomorrow comes today. Il futuro distopico di Terry Gilliam è oggi; iPad, iPhone, realtà virtuale e pubblicità che scorrono sui muri insistenti. The zero theorem è la confusa rappresentazione di un uomo che, attraverso una specie di computer, comandato da una sorta di joystick, lavora ad un progetto incomprensibile per un uomo-direttore-dio-demiurgo che non si capisce bene cosa voglia; gli spunti ci sono ma manca la coesione. Da qui la domanda più antica del mondo: è nato prima il film o il budget?
“Un uomo di computer talentuoso e misantropo viene reclutato dalla compagnia per cui lavora (la Mancom) per lavorare ad un progetto impossibile: The zero theorem: il teorema che prova la nullità dell’universo.”
Quando Bellocchio presentò il suo I pugni in tasca, raccontò di averlo pensato e scritto in funzione del suo budget praticamente nullo. Bellocchio lo ambientò tutto nella casa di Bobbio, spoglia di decorazioni, senza attori famosi e praticamente senza troupe.
Da qui il dilemma Gilliamiano: Dove sono finiti i luoghi fantastici di Brazil? Dove sono i grandi piani, i ristoranti, i costumi, l’ufficio diviso a metà in cui gli impiegati si litigano le scrivanie?
The zero theorem si svolge tutto nella casa di Qohen Letz (Christoph Waltz); una enorme chiesa londinese riadattata a magione, nella quale il battistero è diventato un lavandino e il crocifisso sopra l’altare, al posto della testa, reca una telecamera agile alla “The Big Brother is watching you”.
Gilliam è un regista di talento infinito, che non ha bisogno di presentazioni. The zero theorem è un progetto molto più piccolo di Brazil (basti pensare che in Italia arriva dopo tre anni) e in quanto tale non dovrebbe ad esso essere paragonato. L’ex Monthy Phyton, come Bellocchio, ha dovuto ragionare su un film che potesse svolgersi in meno ambienti (praticamente uno solo), che non avesse eccessivo bisogno di attori e corpi e che, soprattutto, potesse essere, al netto delle “defezioni”, un prodotto dignitoso.
L’estetica “candy-candy” ricorda moltissimo la saga di Spy kids di Rodriguez; dai colori accessi dei costumi alla festa fino al set della realtà virtuale, con massi veri adagiati sulla spiaggia e un green-screen economico e volutamente dilettantistico.
La telecamera a sghimbescio è il marchio di fabbrica di Gilliam; l’inquadratura è sempre storta e il piano sequenza onirico del party iniziale ci ricorda perché lo chiamiamo genio.
Tanto talento, tanto cuore, ma poco budget. I problemi ‘extra-artistici’ vengono spesso, ingiustamente, tralasciati. Eppure quando si costruisce un film, soprattutto di fantascienza, si parte proprio da lì.
Mèlanie Thierry è bellissima, fantastica, seducente e simpatica. È una “webcamerina” 3.0 che lavora tramite la realtà virtuale; Qohen e lei si connettono con un tubo come in Existenz di Cronenberg, sperando di vivere una avventura felice nella spiaggia “parallela” alla vita reale.
Del teorema non si parla mai; niente viene spiegato e il film procede in modo “centrifugo”, come Brazil: da una situazione di “pace” iniziale, si va verso il caos, l’incomprensibile, l’inspiegabile. Rispetto al film dell’85, però, qui è tutto troppo insiegabile e confuso.
The zero theorem si svolge in una Londra prossima, in un futuro che potrebbe essere a qualche ora di distanza da noi, nel quale dio non c’è più e le chiese sono case; nel quale le donne riescono a controllare gli uomini e sono veri e propri oggetti ( la fattorina della pizza scollata, gli abiti di Bainsley, il futuro delle “webcamerine” a cavallo fra spettacolo e prostituzione).
Confusione, Caos, invenzione che non porta da nessuna parte in una pellicola condizionatissima dalle basse possibilità economiche.
Tuttavia, Tilda Swinton come psicologa, l’esame dei dottori e i cameo di Damon come uomo-dio-direttore-demiurgo della “Mancom”, che noi chiameremmo “ItalPetrolCemenTermoTessilFarmoMetalChimica”, sono, semplicemente, grandissimo cinema.