C’è qualcosa di indecifrabile e allo stesso tempo ancestrale nella visione de El Abrazo de la serpiente, opera terza del regista colombiano Ciro Guerra che si è aggiudicata il premio Art Cinéma alla Quinzaine des Réalisateurs al Festival di Cannes 2015 e una nomination – strameritatissima – come miglior film in lingua straniera agli ultimi Academy Awards. Indecifrabile in quanto racconta una cultura, quella dei nativi amazzoni, lontanissima nello spazio e nel tempo ed ormai sepolta da decenni di colonialismo occidentale. Ancestrale perché dopo aver visto questo film percepiamo di aver perduto, insieme a quella cultura, qualcosa di noi stessi.
Due spedizioni, un’unica guida
La pellicola prende spunto da fatti realmente accaduti a due esploratori che a distanza di trent’anni l’uno dall’altro decidono di avventurarsi nell’Amazzonia colombiana alla ricerca di una pianta dai poteri magici e curativi, la yakruna. Sono proprio i diari di viaggio dell’esploratore ed etnologo tedesco Theodor Koch-Grünberg (interpretato da Jan Bijvoet), datato 1909, e quello del biologo statunitense Richard Evans Schultes (Brionne Davis), datato 1940, le fonti primarie da cui Ciro Guerra attinge meticolosamente impiegando quasi tre anni per la stesura della sceneggiatura in un lavoro di ricostruzione storica che ha dell’eccezionale. È grazie a quelle testimonianze che scopriamo come gli scienziati, seppure a distanza di decenni, si fecero aiutare nel loro viaggio di ricerca entrambi dallo stesso indigeno, Karamakate, sciamano e ultimo custode dei segreti e dei miti dei nativi amazzoni. Personaggio che ci appare prima giovane e forte (Nilbio Torres) e poi invecchiato e disilluso (Antonio Bolivar) nonché privato del proprio senso di appartenenza ad una comunità ormai cancellata dalla modernizzazione. Sarà la sua guida fisica e spirituale che accompagnerà i due scienziati attraverso i pericoli della profonda foresta colombiana in una vera e propria odissea filmica di 125 minuti in cui, grazie a un magistrale montaggio temporale, vediamo le due spedizioni affrontare agguati di nativi, conoscere la violenta evangelizzazione degli indigeni e fare i conti con la spietata realtà dei colonizzatori occidentali pronti a sterminare intere tribù pur di depredare il territorio dalle preziose piantagioni di caucciù. Il tutto attraversando un vero e proprio crocevia di lingue (se ne parlano ben nove), etnie ed animismi.
Là dove nessun uomo è mai giunto prima
Come in una piroga che naviga su un fiume, la stessa che utilizza Karamakate per guidare i due scienzati, il film viaggia in mezzo due sponde parallele: quella della finzione, resa da una bellissima fotografia in bianco e nero, e quella del documentario di viaggio, capace di cogliere le bellezze incontaminate della giungla amazzonica. Luoghi inaccessibili alla civiltà, realmente esplorati con molte difficoltà dalla troupe di Ciro Guerra che in due mesi di lavoro ha portato la macchina da presa “là dove nessun uomo è mai giunto prima”, tanto da dover chiedere il permesso alle stesse tribù indigene locali con le quali è nata una vera e propria collaborazione nella produzione del film. Tutto questo rende ancora più prezioso El Abrazo de la serpiente e ne fa un documento straordinario, uno sguardo unico su un mondo che appartiene al nostro senza però farne parte realmente.
La rivoluzione narrativa
Ma è già in questa dimensione puramente avventurosa che Ciro Guerra capovolge totalmente la voce della narrazione. Il nostro sprofondare nella foresta amazzone non è più raccontato dal punto di vista dell’esploratore “bianco” come invece spesso la cinematografia ci ha abituati (si pensi a Mato Grosso di John McTiernan): è invece la stessa cultura indigena che ci accompagna in riti sciamanici, linguaggi sconosciuti e tradizioni millennarie. La nostra sopravvivenza di spettatori, ugualmente a quella degli scienziati guidati da Karamakate, dipende soltanto dalla saggezza che lo sciamano sa infondere, da quella sua consapevolezza mistica che ci contamina fin dalle prime scene iniziali. Non è più l’uomo occidentale che alfabetizza il selvaggio dunque, è al contrario la cultura sciamanica che ci insegna un nuovo alfabeto per leggere i segni (e i significati) della natura e dei nostri stessi sogni.
L’orrore della civilizzazione
Questa rivoluzione narrativa è solo l’inizio di una serie di riflessioni che Ciro Guerra sviluppa per interrogarsi (e interrogarci) su diversi concetti, primo su tutti quello di “cività”. Prima – quasi scomodando l’Herzog di Aguirre furore di Dio – Ciro Guerra ci ricorda come l’ordine sociale delle tribù amazzoni fosse fondato su un’armonia totale con la natura che le circondava, poi – facendo eco alle parole “l’orrore l’orrore” di Kurtz in Apocalipse Now – ci mostra la follia di una comunità cristiana che guidata da un autoproclamatosi messia decide di cannibalizzare un uomo (chi è davvero il selvaggio?).
La materia, lo spirito e il sogno
Eppure il vero incontro di cui ci vuole parlare Ciro Guerra è quello fra i due esploratori occidentali e lo sciamano Karamakate, quello fra scienza e cultura indigena, quello – in sintesi – fra materialismo e spiritualità. È un dialogo costante, alle volte contraddittorio, altre volte ironico, eppure mai banalizzato. C’è invece una più inquietante similitudine fra la necessità di leggere i sogni di Karamakate e il bisogno dell’uomo occidentale di esplorare il mondo e di acquisire conoscenza di esso, come se i due viaggi, interiore ed esteriore, fossero destinati a confluire, a fondersi, a diventare un’unica cosa. Ed è quello che succede in una delle scene finali, la sola a colori di tutto il film, misteriosa, onirica e quasi psichedelica.
Film esperienziale, manifesto civile ed antropologico, omaggio ad un’Amazzonia che non esiste più: El Abrazo de la serpiente è una delle visioni più sorprendenti e vibranti degli ultimi anni, capace di “consegnare una goccia di splendore” ad una civiltà dimenticata e riuscendo nell’impresa straordinaria di farcela conoscere attraverso il linguaggio e i miti di chi ne ha fatto parte.