Robert Kirkman, il padre dei vaganti di The Walking Dead, ora si fa anche cantastorie di demoni. Con Outcast, la nuova serie di Cinemax trasmessa in Italia da Fox, ci siamo lasciati alle spalle i mostri riconoscibili al primo sguardo, gli zombie, e ci siamo tuffati in una sfida che non è più la sola sopravvivenza. Il buon Kirkman usa in maniera allegorica il demonio – e la famiglia molto cattolica in cui dice di essere cresciuto – per addentrarsi in quella selva oscura che è la natura dell’uomo, provando a parlarci dell’idea che lui si è fatto del Male.
Un Male che vive nell’animo umano indipendentemente dai demoni che lo abitano (una percentuale altissima a Rome, la piccola città del male che si fa arena di questo racconto); un Male già presente in Sidney (Brent Spiner, Star Trek: The Next Generation), il cattivo dei cattivi, da prima della possessione; un Male che, con la sola malvagità umana – e non demoniaca – si è intromesso in passato nella vita di Megan (Wrenn Schmidt, Boardwalk Empire), rovinandola.
In Outcast tornano i punti fermi di Kirkman: un protagonista tormentato ed eletto, una famiglia da salvare e la consapevolezza che il mondo non è un posto per bambini.
Patrick Fugit (Gone Girl) nei panni di Kyle Barnes inizialmente si trova lontano dalla propria famiglia, cerca di entrare in contatto con la moglie di cui è tanto innamorato da proteggerne anche i ricordi, da addossarsi una colpa non propria pur di preservarne la sanità mentale. E ha una figlia che, proprio come Carl Grimes in The Walking Dead, è piccola ma costretta dalla vita a smetterla di fare cose da bambini e a crescere il più velocemente possibile.
Nel pilot già dalle prime immagini è chiaro che non c’è pietà per i posseduti, nemmeno se sono bambini. Ancora una volta il paragone con The Walking Dead nasce spontaneo: un bambino posseduto (lo spaventoso Gabriel Bateman che ci fa venire l’ansia anche in American Gothic), aggredito dentro dal demonio e fuori da Kyle. Possiamo già scegliere se stare a questo patto con gli autori o se continuare a guardare Grey’s Anatomy.
Detto ciò, a mio avviso, la prima stagione di Outcast è ancora parzialmente incompiuta.
Il protagonista, Kyle Barnes, appare da subito come un pover’uomo lamentoso, sicuro (inizialmente più per paranoia che per dati di fatto) di essere una calamita per il Male. E noi spettatori ci domandiamo come sia possibile che succedano tutte a lui. Attenzione, è normale che il protagonista compia un cammino di martirio, ma ciò che gli accade dovrebbe essere una sorta di causa-effetto innescato dal lui stesso e non una serie di sfortunati – e demoniaci – eventi. Dopo 500 minuti di show non sappiamo ancora contro cosa stiamo combattendo, cosa stiamo rischiando e perché. Certo, il Reverendo Anderson (Philip Glenister, Mad Dogs) ha detto più volte che si tratta del demonio e del rischio che regni per centinaia di anni, ma lo stesso Sidney, quando gli è stato chiesto chi fosse, non ha risposto alla domanda: i fatti sono scarsi, sembra che si debba credere alle parole di Anderson solo perché portavoce della Bibbia.
Nemmeno il genere ne esce rinnovato. Il grande merito di Kirkman è stato quello di dare nuova vita agli zombie quando di zombie non se ne poteva e parlava più; non si può dire che con Outcast si stia rinnovando il tema della possessione. Si vede però che la volontà c’è, forse siamo solo arrivati un po’ lunghi, per quello che mi riguarda l’ultima puntata dello show sarebbe stata bene come midseason o poco più.
C’è però una chicca in nona puntata di cui non posso non parlare. Si tratta dei final credits muti, senza musica. Dev’essere una cosa che piace a Kirkman perché succede anche in alcuni episodi di The Walking Dead, puntate luttuose, che si chiudono generalmente con le manine intrecciate sulla bocca e un inequivocabile sguardo che dice “No! No! No!”.
Continueremo a guardare Outcast, perché le potenzialità ci sono, perché sviscerare il Male è difficile, perché Kyle è bravo ma (ancora) non si applica e perché l’ultima scena della prima stagione lo mette di fronte a una scelta inevitabile: non c’è scampo, deve affrontare i propri demoni, in senso letterale.
Outcast, la recensione della prima stagione
La serie con cui il Robert Kirkman di The Walking Dead ci racconta della possessione demoniaca trasmette ancora un senso di incompiutezza.