New England, prima metà del XVII secolo. William (Ralph Ineson) e Katherine (Kate Dickie) hanno cinque figli, la quattordicenne Thomasin (Anya Taylor-Joy) e, in ordine decrescente, Caleb (Harvey Scrimsshaw), Mercy, Jonas e il neonato Samuel. William è un bigotto, una figura forte e patriarcale che in nome di Dio non esita a ignorare le regole della sua comunità dalla quale si allontana cantando inni al Signore durante l’esodo. La famiglia si trasferisce in una fattoria ma ben presto scopre che la nuova vita è molto più dura di quanto probabilmente marito e moglie immaginavano. La terra per il raccolto è poca, non è fertile e il bosco adiacente è molto più inquietante che ricco di selvaggina. Il figlio più piccolo, Samuel, scompare misteriosamente sotto gli occhi di Thomasin ma la fede di William e Katherine è inossidabile e continuano a trasmetterla agli altri quattro figli. Per risollevare le sorti economiche della famiglia Caleb decide di inoltrarsi nel bosco per cacciare animali e venderne le pelli, Thomasin lo segue ma qualcosa va storto e i due si perdono di vista. La sorella maggiore riesce a tornare a casa e dopo qualche giorno si presenta in piena notte anche Caleb, nudo e stremato. Sarà l’inizio di una nuova tragedia che però, questa volta, metterà a dura prova i rapporti familiari e li farà implodere.
The Witch arriva nelle sale atteso e temuto come tutti i film preceduti da commenti favorevoli iniziati durante le riprese, poi nelle anteprime e ancora nelle prime uscite ufficiali; atteso e temuto come tutte le opere prime. La pellicola di Robert Eggers in effetti mantiene le promesse e le aspettative. La storia che mette in scena il regista statunitense, come descritta sommariamente all’inizio, è molto semplice ma il lavoro d’insieme risulta complesso, forte, potente e solido grazie alla sua mano, alla sua abilità di legare insieme personaggi ed eventi mai scontati sebbene apparentemente facili da interpretare, alla sua sceneggiatura, al punto di vista della sua macchina da presa. The Witch si ispira a vecchi racconti di stregoneria e alcuni dialoghi sono fedeli a quelli ritrovati in alcuni testi (diari e altro materiale) ma anche in questo caso l’intervento del regista fa sì che le vicende, seppur collocate in uno spazio geografico e temporale ben precisi, arrivino allo spettatore come indefinitamente sospese. Un’autentica magia che trova alleanze preziose e decisive nelle musiche di Mark Korven, nella perfezione della fotografia e nella riproduzione di atmosfere dark, quasi sempre molto cupe, dove la luce delle candele e il cielo plumbeo sono la norma e dove dominano le gradazioni del colore seppia. Alcune sequenze sono vere e proprie opere pittoriche e in questo senso è intelligente l’accostamento fatto da qualcuno ad una parte della filmografia di Sokurov, non solo perché il regista russo assegna all’arte un’importante funzione di riscatto dell’uomo e della vita, quanto forse e soprattutto per l’indagine sui rapporti di potere (che in The Witch tutti interni alla famiglia) che Sokurov rappresenta nella sua tetralogia sul potere (Moloch, Taurus, Il Sole e Faust). Allo stesso modo non si può non pensare ad alcuni dei temi cari a Polanski, in particolare alla sue denunce sulla frantumazione dell’io, sulla perdita di identità e coerenza di persone doppie e dalle false apparenze. La tecnica e le atmosfere riprodotte da Robert Eggers rimandano inoltre ad una altro grande maestro del cinema, il tedesco Edgar Reitz che con il suo Heimat ci ha riportato indietro nel tempo senza quasi farci accorgere della distinzione tra il film e la modernità. Ci convince invece molto meno l’accostamento a The Village. I due film sono sì simili per tematiche e atmosfere ma la pellicola di M. Night Shyamalan non riesce ad avere un ritmo costante e cede talvolta a cali di tensione e vuoti di sceneggiatura (molto meglio il suo The Visit).
Non che The Witch abbia ritmi incalzanti. Il film è lento ma Eggers sceglie i tempi necessari per dare la possibilità allo spettatore di cogliere dettagli e particolari. In questo modo si può notare, oltre che l’eleganza e la raffinatezza formale già detta, anche la cura dei costumi, dei dialoghi e del linguaggio del corpo di ognuno dei protagonisti: tra le scene più riuscite l’attrazione di Caleb per sua sorella Thomasin, descritta in maniera delicatissima ma potentissima. Il film è anche pieno di simboli. Sono simboli propri dell’iconografia classica che di solito rappresenta o rimanda a streghe e diavoli (la foresta, l’avvoltoio, la strega sensuale, la mela, il caprone nero, il coniglio nero) ma sono inseriti in un contesto che crea suggestioni mai banali che non hanno la pretesa di dare risposte ma solo di creare domande e di porre interrogativi. Ad esempio sul rapporto tra le colpe dei padri e il destino dei figli. Sulle possibili conseguenze di un mondo dove si ergono muri che dividono il Bene e Male, Dio e il Diavolo, Noi e Voi. Sull’irresistibile tentazione dei genitori di volere figli a loro immagine e somiglianza e magari allevare inconsapevolmente dei mostri. Alla fine ci si chiede perfino se eventi dolorosissimi siano il prezzo da pagare per una giovane donna-figlia che vuole emanciparsi e spiccare il volo. La sensazione è che non ci siano né vinti né vincitori e che a spiccare il volo sia solo il film.
The Witch: la recensione di un’opera prima quasi perfetta
Tra le influenze di Sokurov, Polanski e Reitz, i perché del successo di un horror evocativo ed inquietante, lungometraggio di debutto di Robert Eggers.