Fischi, uscite premature dalla sala ed epiteti (‘bollito’ il più divertente); questo e poco altro porta a casa Wim Wenders dopo Les Beaux Jours de Aranquez, il perdibilissimo adattamento cinematografico del omonima pièce di Peter Handke.
Il 1° settembre in Darsena prima ed in Sala Grande poi, si è potuto assistere ad un momento, per certi versi, storico: la caduta di un mito, l’ultima fatica di un artista che, oltre ai documentari, non sembra avere parole per niente e ce lo dimostra con un esercizio di stile, arricchito dal 3D, nel quale un uomo e una donna con fare da filosofi discutono su problemi filosofici vestiti da filosofi.
Il risultato è un film vuoto, impossibile da seguire e figlio di una fase produttiva di Wenders che chiameremo caduta.
Il tedesco vuole girare un film “al contrario”: senza movimenti e pieno di parole, i due protagonisti, in uno scambio di battute, ci rivelano la regola della pellicola:“Avevamo detto solo dialogo, niente azione”.
Non si muovono l’uomo e la donna; fissano il paesaggio e parlano.Fuori dal tempo, fuori dall’attualità, dalla realtà , dalla società etc. Wenders crea due personaggi stereotipati, piatti, che parlano di argomenti filosofici come il sesso, la natura, la felicità e la vita, ammorbandoci con delle enumerazioni di frutti e verdure, raccontandoci delle giornate passate al castello di Aranjuez e sputando sentenze su come nessun giorno della vita sia felice e su come siamo tutti al mondo invano.
Les beaux jours de Aranjuez è il peggior tipo di cinema d’autore, quello “confezionato”, già visto, nel quale si parla a vanvera di temi essenziali per elevare il film al grado autoriale.
Giustamente qualcuno lo ha chiamato “il bollito”, dal regista di Paris,Texas e Il Cielo Sopra Berlino ci si aspetta molto di più, in primis la decenza di consegnare un film che si possa definire tale. Concorso immeritato per Les Beaux Jours d’Aranjuez, il nome Wenders lo fa arrivare ovunque da ormai troppi anni e la caduta sembra aver raggiunto il momento peggiore, quello nel quale il regista si perde in esercizi di stile nei quali si trova solo lui (il cammeo di Nick Cave è l’unica cosa bella del film, ma resta il dubbio: perché?), fra dialoghi stupidi, di due persone insopportabili dal primo minuto, in un film che si propone di re-inventare il cinema, una disciplina artistica che è nata muta ma piena di azione e che, ci ha dimostrato Wenders, non può funzionare immobile.
Grande colonna sonora, divisa tra Perfect Day di Lou Reed e il fantastico, splendido cammeo onirico di Nick Cave, il quale appare come un sogno, con il suo piano.
La strada di Wim ormai deve essere il documentario, Il sale della terra, Pina e Buena Vista Social Club hanno vinto tutto e i Ritorno alla Vita prima e Les Beaux jours di Aranjuez poi, hanno perso tutto.
Venezia 73: la recensione in anteprima di Les Beaux Jours d’Aranjuez
Wim Wenders torna con un trionfo radical chic di autoreferenzialità che fa sembrare i tempi de Il Cielo Sopra Berlino lontani una vita.