L’olandese Martin Koolhoven ha sempre ricercato lo shock, ha sempre creduto nell’esplicito e nell’estremo come strumenti per agganciare lo spettatore. Brimstone, presentato in concorso alla 73° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, non fa certo eccezione.
Non lasciatevi ingannare dall’ambientazione e dai trailer: il film con Dakota Fanning, Guy Pearce, Carice Van Houten (scoperta proprio da Koolhoven in Suzy Q) e Kit Harington (subentrato a metà produzione a Robert Pattinson) non ha quasi nulla a che fare con il genere western. Si tratta piuttosto di un thriller ossessivamente costruito sulla violenza esplicita (tanto da avvicinarsi non poco al terreno dell’horror) che racconta la persecuzione della protagonista femminile (la Fanning) da parte di un predicatore tutt’altro che raccomandabile (Pearce).
Difficile commentare il film, dato che non vi riveleremo nulla della trama; ma d’altronde la struttura della pellicola rende evidente come sia intenzione del regista snocciolare con molta parsimonia e nel corso di tutta la durata del racconto gli eventi focali, e non saremo certo noi a rovinarvi la visione.
Sappiate solo che Brimstone è prima di tutto (e quasi esclusivamente) un’odissea del sadismo dalla connotazione insospettabilmente femminista. Il motore del film è la determinazione con cui ‘il Reverendo’ si accanisce nella vessazione della figura femminile, oggetto di insostenibili umiliazioni e brutalità, senza permettere a nulla di arrestarlo. La violenza è non solo esplicita ma addirittura protagonista – con concessioni non di poco conto al gore – e il susseguirsi di atti terribili è tanto fitto ed estremo da raggiungere livelli a tratti grotteschi e caricaturali.
Il genere femminile è calpestato in ogni modo possibile per tutta la durata della pellicola da parte di molti dei personaggi maschili, che vedono nella donna un oggetto su cui hanno ogni diritto e controllo, e l’ambientazione scelta, oltre a fornire un’indispensabile premessa storica, ha la medesima funzione del metafisico nella tragedia greca: laddove i tragici usavano le divinità per astrarsi dal piano della quotidianità e raccontare la catarsi attraverso un percorso di violenza e messa in discussione dei rapporti di potere e familiari, Koolhoven utilizza il contesto western per lo stesso scopo.
La struttura della narrazione è uno dei punti di forza della pellicola, e se la divisione in capitoli progressivamente sempre più lontani nel tempo permette allo sceneggiatore/regista di calare più volte le carte del ‘riconoscimento’ e della ‘rivelazione’ (l’anagnorisis della tragedia greca), d’altro canto si viene a creare una certa ‘modularità del dolore’ che porta a dei livelli di pressione psicologica degni di un torture movie.
Se per la maggior parte della pellicola potrebbe sembrare che l’insistenza sulla perversione maschile verso la donna sia gratuita, una conclusione efficace ma dai toni velatamente didascalici rende evidente come lo sguardo di Koolhoven sia principalmente indirizzato su un percorso plurigenerazionale di emancipazione della donna dai soprusi di un certo tipo di uomini.
La disparità dei sessi, i femminicidi e le mille altre forme di abuso sul genere femminile – che purtroppo riempiono ogni giorno le pagine dei giornali – si raccontano anche così: con una tragedia greca mascherata da western. Perché certe donne “hanno sempre il controllo” e non permettono a nessuno di considerarle di sua proprietà.
Venezia 73: la recensione in anteprima di Brimstone (NO SPOILER)
La pellicola femminista di Koolhoven, presentata in concorso, è una riproposizione della formula della tragedia greca in chiave western. Scioccherà molti.