Il cinema indiano d’autore ci ha abituato in questi anni ad opere fresche, sincere e lontane da ogni stereotipo orientalista, realizzate da giovani registi, ma è davvero difficile immaginare, guardando un film maturo come Hotel Salvation, che Shubhashish Bhutiani, l’autore, abbia solo 25 anni.
O forse sì: lo sguardo ironico e lieve, la saggezza disarmante e rigorosa che solo i molto giovani e i molto vecchi possiedono nel narrare e nell’interpretare i fatti potrebbe far arguire a uno spettatore attento che in effetti Hotel Salvation non possa che essere l’opera di un regista giovane ma dotato di un solido bagaglio formativo alle spalle. Bhutiani è infatti un diplomato della New York City’s School of Visual Arts e non è un parvenu del festival di Venezia: nel 2014 il suo short film Kush vince come miglior cortometraggio proprio nella sezione Biennale College, la stessa in cui quest’anno appare il lungometraggio Hotel Salvation.
Dayanand detto Daya è un distinto signore, poeta e insegnante, che vive con il figlio Rajiv, la nuora Lata e la nipote Sunita, futura sposa non troppo entusiasta di nozze combinate.
Una sera, a cena, Daya comunica alla sua sgomenta famiglia che la sua ora è arrivata, annunciata da una serie di sogni ricorrenti, e che perciò è arrivato per lui anche il momento di trasferirsi a Varanasi presso l’Hotel della Salvezza (Hotel Salvation, appunto, Mukti Bawan in hindi).
In questo hotel situato sulla riva del Gange, fiume-divinità per gli induisti, gli ospiti attendono serenamente la morte dedicandosi a canti, esercizi di meditazione e socializzando tra di loro.
L’unica regola che vige all’interno della struttura è il tempo limite di due settimane concesso a ciascun occupante: se la fine non arriva entro quel lasso di tempo, bisogna lasciare il proprio alloggio ad altri ospiti.
Dayanand arriva in hotel accompagnato dal figlio Rajiv: Daya è insieme allegro ed energico, sereno e determinato; non è un uomo facile, né un padre di tipo tradizionale. È fermamente convinto che seguire le proprie scelte personali sia la più alta espressione della libertà individuale, e questa sua etica influenza l’atteggiamento e le propensioni di Sunita, la nipote a lui legatissima.
Di tutt’altra pasta il figlio Rajiv, che possiede invece nei confronti della vita un atteggiamento molto più passivo e conformista, condividendo con la moglie Lata un’aria perennemente preoccupata.
Differenze così smaccate tra i due uomini, Daya e Rajiv, sono evidenziate lungo tutta la narrazione, ma proprio dalle reciproche diversità nascerà un rapporto nuovo e più profondo tra padre e figlio, che durante questa esperienza così estrema e singolare si conosceranno davvero e forse per la prima volta. I rapporti tra genitori anziani e figli adulti si perdono spesso in mille rivoli fatti di quotidianità borghese e preoccupazioni spicciole, e in questo film proveniente da un mondo cinematografico così apparentemente lontano ritroviamo gli stessi interni di tanto cinema europeo, e quindi anche dinamiche simili, intrichi di cose non dette e non espresse.
Rajiv cerca di prolungare il più possibile la sua permanenza insieme al padre, come se tornare a casa, per quest’uomo silenzioso e insicuro, perseguitato dai problemi di lavoro, significasse perdere per sempre Daya e spezzare un legame che non si sente affatto pronto a interrompere. Quale figlio, d’altra parte, sarebbe pronto a vedere il proprio genitore congedarsi per sempre dalla vita?
La morte, la libertà e il fiume Gange sono gli altri protagonisti, onnipresenti e silenziosi, di questo film.
Il regista Bhutiani avrebbe potuto scegliere di rappresentare il Fiume Sacro in modo epico e maestoso, ma non lo fa: il registro del film è impostato su un altro tipo di visione.
Quando Daya e Rajiv arrivano al cospetto del Fiume, esso si presenta placido, avvolto da una caligine azzurrina e solcato da imbarcazioni che navigano tranquille.
Non c’è nulla di temibile o ieratico in questa scena, eppure il Gange è allo stesso modo grandioso e accogliente.
Lo stesso Grande Fiume è protagonista di un’altra intensa scena, girata durante il Kumbh Mela, il grande raduno religioso hindi. In quest’occasione, i fedeli si dirigono verso le rive a bordo di grandi, affollate imbarcazioni e lasciano andare piccole candele galleggianti sulle acque, mentre sulle banchine si svolgono bellissimi rituali di luce.
La famiglia di Dayanand è riunita per l’occasione e ad essa si aggiunge Vimla, una dolce signora vedova ed ospite da molti anni dell’Hotel che ha intrapreso con Daya una tenera amicizia. Vimla, Daya e sua nipote Sunita applaudono e sorridono ai riti, mentre i soliti, rigidi, pavidi Rajiv e Lata siedono in un angolo della barca, attenti alla forma, incapaci di godersi la sostanza. I sorrisi e i battimani di Vimla, Daya e Sunita sono incantevoli e commuovono nella loro spontaneità, così come commuove la loro spiritualità naturale, senza orpelli né ipocrisie.
La morte è una presenza naturale nella cultura hindi; le pire funerarie sono allestite all’aperto, sulle rive del Gange, le esequie si svolgono sulle banchine, accompagnate da canti, con i bambini che giocano qualche metro più in là. I morti sono avvolti in teli colorati e cosparsi di collane di fiori. Il dolore esiste e viene espresso, ma non si percepisce disperazione.
La libertà è rappresentata da Daya stesso e dalle sue scelte di vita e di morte, che influenzeranno in modo determinante la nipote Sunita, con la quale ha un rapporto di amore e complicità e che accoglierà Vimla come una sorta di nonna acquisita.
In un’altra bella scena del film, Daya confida al figlio Rajiv di aver preso la decisione di aspettare la morte all’Hotel Salvation perché stanco della vita. Queste parole sarebbero potute uscire dalla bocca o dalla penna di un esistenzialista occidentale, e invece sono pronunciate da un uomo appartenente a una cultura che molti tra gli occidentali immaginano stolidamente inerte e fatalista.
Daya è un intellettuale, un poeta, e non potrebbe essere altrimenti.
La regia di Bhutiani è un misto di raffinatezza e naturalezza; colpiscono i primi piani di Daya e Rajiv sempre leggermente spostati, come a voler esaltare, oltre ai loro volti, anche gli ambienti circostanti, i colori pastello scrostati delle pareti, le finestre, la luce.
Hotel Salvation è un film che parla di legami, di scelte, di crescita, di autodeterminazione, di amore, di padri e figli con uno stile diretto e poetico la cui freschezza è, purtroppo, sconosciuta a molto cinema europeo e nordamericano attuale.
Notevoli le musiche di Tajdar Junaid, che accompagnano le scene più intense e commoventi del film e che rappresentano una sintesi molto suggestiva di contemporaneo e tradizione.
Venezia 73: la recensione di Hotel Salvation
Presentato a Venezia nella sezione Biennale College, il lavoro dell'indiano Shubhashish Bhutiani è raffinato e caratterizzato da una grande naturalezza.