Negli anni ’70 si pensava che le macchine avrebbero sostituito l’uomo, accrescendo il tasso di disoccupazione e quindi aumentando i problemi di sostentamento. Alcuni, come il regista Silvano Agosti, non lo hanno considerato un evento catastrofico, piuttosto la possibilità per lo Stato di rendere liberi i propri cittadini, in modo che si potessero dedicare all’otium e non più al lavoro, che potessero lavorare per vivere e non vivere per lavorare.
Le macchine ormai dominano il secondario, ma il lavoro, anziché ridursi, è semplicemente cambiato. Rimane un’attività cui i più dedicano buona parte della propria vita anche se preferirebbero ben altri impegni, e solo per pochi – pochissimi – è un’attività per alimentare corpo e spirito. C’è chi poi, nonostante un mondo in pieno divenire, fa la scelta di andare a ritroso e trovare nel lavoro attraverso le proprie mani un’opportunità per riscoprire l’arte, la pittura, la poesia, la musica.
È questo il caso di Alberto Casiraghy e Josef Weiss, i due protagonisti del bellissimo documentario Il Fiume Ha Sempre Ragione di Silvio Soldini, che ora è disponibile in home video Mustang Entertainment su distribuzione CG Entertainment.
Due uomini anziani ma con molta più energia di un adolescente, spensierati, allegri, curiosi e fieri di ciò che fanno: gli editori con macchine a caratteri mobili. Perché tornare a stampare con degli apparecchi obsoleti? Per andare controcorrente? Per opporsi al progresso? Niente di tutto questo: Alberto ha un iPad e Josef non è un recluso. Lo fanno per amore delle parole, intese come entità dotate di forma e non solo d’idea. Perché nell’atto di creare una pagina, di incidere qualche parola o di dare nuova veste a un libro, si annusa, si tocca, si percepisce e si impara a capire cosa è vero da ciò che non esiste.
Alberto Casiraghy ha una casa-laboratorio a Ornago, fatta di ricordi, librerie, armadi e comò pieni di libri, sulle mensole soprammobili, pupazzi, foto e disegni lasciati da qualcuno che è passato per di lì. Lui li mostra e si commuove, in maniera velata, melanconica e autentica. Si intuisce così che ciò che cerca è uno scambio di emozioni, l’unicità di un momento come è unico un libro fatto a mano di cui non ci sarà mai una copia come l’altra. Fa vedere poi a Soldini come funziona la copiatrice a caratteri Helvetica, come uno dei primi esemplari di Gutenberg, del XV secolo, con le sue lettere piccole e consumate, la manovella per pressare il foglio e gli stilemi per l’immagine di copertina.
Dall’altra parte c’è Josef Weiss, nel Canton Ticino, più ordinato e introverso. Editore anche lui di volumi speciali, ha come grande passione quella di resuscitare i libri. Li prende ai banchetti dell’usato per rimettergli una nuova copertina, rilegarli o riassettare le pagine consumate, “li vedo, poi mi fanno pena e li prendo”.
La narrazione salta dall’uno all’altro, si raccontano, si confidano e infine si incontrano. Alberto va a trovare Josef e riflettono insieme sul loro lavoro, sul loro presente e sull’importanza che hanno per loro le parole, la poesia, gli aforismi. Weiss regala all’amico un libretto di una collana che unisce l’immagine alla parola, all’espressione libera di artisti, un foglio a fisarmonica grazioso e ben rifinito.
Un documentario curato, teso a rendere più la poeticità del fare dell’uomo che la fedeltà dello scorrere del tempo. Ponderato, con lunghe sequenze, mai privo di parole e quando serve di musica. Il suono prevale sull’immagine per estendersi all’immaginazione e al proprio io, non per scarnirla o sfruttarla. Un documentario storico, per conoscere la nascita del libro; biografico, perché al centro vi è la vita di due uomini speciali che hanno avuto il coraggio di scegliere un lavoro per passione; artistico, perché dietro ogni libro c’è una creatività espressa, uno scrittore, un illustratore, un artigiano, un incisore. Così è anche un prodotto culturale, estetico, cinematografico, poetico e infine identificativo, perché in questi uomini c’è la verve italiana, di chi sogna e unisce diverse professionalità per produrre senza ricercare un titolo di riconoscimento. Di chi si rimbocca le mani per fare l’arte, perché l’arte si fa, non si pensa. Questo è importante ricordarlo, ricordare chi siamo, ricordare le cose straordinarie che siamo in grado di fare se usciamo dal sistema contenitivo moderno, se scegliamo il nostro posto.