(La Writers Guild Italia nasce con l’intento di valorizzare la professione degli sceneggiatori. La sezione “Scritto Da”, sotto l’egida di “Written By”, la prestigiosa rivista della WGAw, tenta di supplire alla grande disattenzione con cui gli scrittori di cinema, tv, e web vengono penalizzati dagli organi di informazione.)
In questi giorni, alle Giornate degli Autori, viene presentato Indivisibili, sceneggiato dai soci WGI Nicola Guaglianone e Barbara Petronio insieme al regista Edoardo De Angelis, da un soggetto dello stesso Guaglianone: la storia di due gemelle siamesi che mantengono l’intera famiglia cantando alle feste, finché non scoprono di potersi dividere. Nicola e Barbara ci raccontano di questo e non solo in un’intervista a due voci.
Barbara Petronio e Nicola Guaglianone. Per prima cosa ci raccontate la trama del vostro film, “Indivisibili”?
N.G.: Indivisibili è il racconto di formazione di due gemelle siamesi che, contrariamente a quanto creduto fino a quel momento, scoprono di potersi dividere. Questa possibilità cambierà per sempre la loro vita.
Com’è nata l’idea del film? Cosa vi premeva raccontare?
N.G.: Avevo letto un pezzo sul New York Times. Una giornalista aveva vissuto un paio di settimane con due gemelle siamesi. Ho subito pensato che lì c’era una storia da raccontare. Ho fatto ricerche, visto documentari e film. Poi ho scritto il soggetto. Ho immaginato che le gemelle fossero due cantanti neomelodiche assoggettate alla famiglia che le gestiva come fossero fenomeni da baraccone. La mostruosità fisica contrapposta alla mostruosità dell’anima di chi le circonda e dice di amarle.
E dove ambientare una storia simile se non in Campania? E a chi affidarla se non a un regista che conosce bene quei luoghi, quelle persone, quei vizi e quelle virtù?
Per questo ne ho parlato subito a Edoardo De Angelis, che oltre a essere un mio caro amico e compagno di sbronze, è un regista di pancia e sangue.
Amo le borgate e l’idea di una famiglia che agisce come un clan mi piaceva molto. Non mi premeva raccontare nulla. Come ho sempre detto, non sono uno di quegli autori convinti sia necessario o urgente raccontare qualcosa. Ho solo cercato di seguire il filo concettuale della separazione iniziato in altri miei lavori. Se prima avevo raccontato la separazione dal mito che porta il nostro peso sulle sue spalle, adesso volevo ficcare il naso nella separazione dalla famiglia. Soprattutto dal padre. Sarà pure che l’anno scorso è morto mio padre.
E cosa succede quando muore un padre, quando ci si separa? Se ne cerca subito un altro, un rimpiazzo che non funziona mai. Ecco perché quando le gemelle scappano di casa per cercare i soldi dell’operazione, finiscono per trovare un altro padre. Senza accorgersi che è peggio di quello vero.
Voi e il regista, Edoardo de Angelis, avete collaborato a partire fin dalla prima idea?
N.G.: Ho raccontato l’idea a Edoardo in un baretto dietro Piazza del Fico. Alla terza pinta di birra avevamo capito che era una storia con un potenziale. Abbiamo parlato per ore. Raccontandoci anche particolari molto intimi delle nostre famiglie. Lui è di Caserta. Io sono nato a Napoli e ho la mamma napoletana. Conoscevamo le idiosincrasie di quel mondo. I pranzi di Natale, gli affetti procurati con il cibo, i ricatti morali. Insomma sapevamo che eravamo sulla strada giusta. Poi è passato un anno. Edoardo inseguiva un’altra idea, in cui mi aveva anche coinvolto. Una sera, in un altro baretto, questa volta di Via Merulana, ho raccontato la storia a Barbara Petronio. La conoscevo di nome, ma non ci eravamo mai visti se non di sfuggita a qualche riunione alla Sact. Però mi piaceva il suo lavoro e mi piacevano i suoi post su Facebook tutti Forza Roma, Venditti e Califano. Per fare bella impressione mi sono giocato le mie idee migliori e le ho parlato di Indivisibili. Aveva il pancione, mi ricordo, e l’idea le è piaciuta fin da subito. Le dico “vuoi scriverlo con me?”. Un paio di giorni dopo, mi ha chiamato Edoardo, “Nico’, le gemelle?”. “Domani ti mando il soggetto”, gli ho risposto.
Che tipo di documentazione avete fatto? Avete anche parlato con persone che si siano trovate nella situazione delle sorelle del film?
N.G.: Ho letto molto, ma direttamente non ho parlato con nessuno. C’è una letteratura vastissima in materia. Abbiamo cercato di capire come potesse essere vivere in simbiosi con qualcun altro, condividerne l’individualità che poi in casi del genere non è mai tale. Sei una persona ma vivi attaccata a un’altra, non puoi decidere nulla senza accordarti e consultarti. È impossibile stare da soli. Avevo letto che due siamesi si davano delle regole. Per 3 giorni si fa quello che dico io, per altri 3 quello che dici tu. Mi sembrava un inferno. Un impossibile equilibrio tra l’io e il noi. L’idea di andare al bagno con tua sorella accanto. Per come la vedevo io, la locandina di Indivisibili me l’ero immaginata con due gabinetti uno accanto all’altro.
B.P.: Quando Nicola mi ha raccontato l’idea del film, ero al sesto mese di gravidanza. Il momento in cui la pancia comincia a farsi sentire e a impedire in maniera molto concreta tanti piccoli movimenti che di solito fai con naturalezza. Avevo insomma una condizione simile a quella che vivono, in maniera molto più stringente, le gemelle siamesi del film. Ho sentito subito che ero nella condizione di poter raccontare questa storia. Mi ricordo che al primo incontro col regista e Nicola sono stata io a farli riflettere sugli impedimenti fisici delle ragazze. Come ti alzi dal letto? Come dormi? Come vai al bagno quando sei fisicamente legato a un’altra persona? Le cose più semplici diventano insormontabili. Un po’ come allacciarsi le scarpe al nono mese di gravidanza…
Vi va di raccontare come vi siete organizzati il lavoro di scrittura fra di voi?
N.G.: Tutto nella norma. Abbiamo fatto brainstorming e poi ci siamo chiusi a casa a scrivere. Dopo una prima stesura ce la siamo ripassata più volte. Abbiamo lavorato tantissimo sui dialoghi. Poi Edoardo si è trasferito a Castel Volturno. Fa sempre così per i suoi film. Sceglie un luogo e va a viverci. È bello. È una cosa che dovrebbero fare tutti. In tutti i suoi lavori, i luoghi e la gente sono parte integrante della storia. Sono stato lì per le ultime stesure. Conosceva tutti.
B.P.: Io avevo una deadline molto più stringente di quelle fissate nei contratti. Dovevo partorire. Quindi mi sono organizzata lavorando a spron battuto per due mesi e mezzo in modo da consegnare tutto prima del mio “grande evento”. La fase delle riprese l’ha seguita ovviamente di più Nicola, tenendomi aggiornata e facendomi partecipe dell’evoluzione delle cose.
Quanto è importante una stretta collaborazione fra gli sceneggiatori e il regista per la riuscita di un film, secondo voi?
N.G.: È importante capire che film vuole fare il regista altrimenti rischi di scrivere una commedia e lui gira un dramma. Edoardo, per esempio, ha una visione della vita ironica, ma quando scrive tende al tragico. Io ho una visione tragica della vita, ma quando scrivo tendo all’ironico. Quando abbiamo capito che direzione voleva prendere, ci siamo incontrati a metà strada.
B.P.: Io penso che tutti debbano mettersi al servizio della storia. Non credo che il film sia il prodotto di una persona sola. Per cui è importante entrare in sintonia prima di tutto col racconto, col senso profondo di quello che si vuole narrare. Se si trova la sintonia in questo, poi collaborare diventa facile.
Il vostro modo di procedere nella scrittura cambia a seconda dei collaboratori e dei registi?
N.G.: Sì. Ci sono registi che scrivono e registi che non scrivono. Questi ultimi ormai sono una rarità. Un problema delle scuole di cinema, secondo me, è che hanno fatto credere che tutti debbano essere autori. E adesso che abbiamo bisogno di registi di genere non sappiamo dove andarli a cercare.
B.P.: Sì, cambia molto non solo in relazione al regista ma soprattutto al mezzo che si usa. Al cinema, in Italia, un regista si sente sempre più al di dentro anche dei meccanismi di scrittura e ne vuole fare parte spesso in maniera attiva. In tv invece accade esattamente il contrario ed è il regista a chiedere lumi sul senso della storia, sui personaggi, sul racconto. In generale, mi piace afferrare il senso di un racconto ed essere fedele a quello e così imposto il mio lavoro con gli altri. Individuare un tema e condividerne gli aspetti generali è il primo passaggio per raccontare una storia. Qualsiasi ruolo si ricopra all’interno di un film.
Quali pensate siano i punti di forza della sceneggiatura di questo film?
N.G.: Non sta a me dirlo. La cosa più importante di una sceneggiatura è che sia onesta con la premessa del racconto. Insomma che non bluffi con il pubblico. Che non si nasconda dietro l’autorialità. Passaggi oscuri che non si comprendono, per esempio. Succede quasi sempre così, il pubblico si lamenta e dice “ma qui non si capisce un cazzo” e l’autore non prova nemmeno a chiedersi se ha sbagliato qualcosa. “Non sono io che ho sbagliato ma sei tu ignorante che non l’hai capito”. Ecco, questo film può piacere o no, ma non mi pare oscuro e impenetrabile come un dogma.
B.P.: Credo che la storia tiri in ballo temi universali come la separazione e la crescita, inserendoli in un contesto sorprendente e inatteso.
Entrambi in un certo senso siete esperti di “genere”. Secondo voi Indivisibili può rientrare in un genere?
NG: Genere favola neoralista. Esiste? Boh. Magari sì. È quello che mi piace fare. Prendere storie assurde, lontane dal nostro immaginario e sporcarle con il dialetto, la periferia, le cicche di sigarette spente male. È questa l’idea di cinema che sto cercando di portare avanti. Sfruttare vari immaginari, fonderli tra loro, creare qualcosa di nuovo. Ed è meraviglioso aver trovato amici registi come De Angelis e Mainetti che condividono con me questo percorso. Ma anche amici sceneggiatori come Barbara Petronio e soprattutto Menotti.
B.P.: In maniera molto generale, credo si tratti di un film drammatico seppure lo spunto, quando me lo raccontò Nicola, aveva per me dei toni di commedia e di alleggerimento.
Vi siete chiesti, in fase di scrittura, a quale pubblico potesse rivolgersi il film? Avete preso delle decisioni per andare incontro a quel pubblico?
N.G.: No, quasi mai. Faccio sempre riferimento a me. Da spettatore mi annoio molto facilmente. Sono io il mio pubblico, principalmente. E gli altri del mio gruppo di lavoro. Se qualcosa non funziona, anche per uno di loro, ci torniamo e cerchiamo di capire cos’è che non va.
B.P.: La domanda credo che dentro di sé se la facciano tutti gli scrittori ma è difficile trovare la risposta e soprattutto scrivere un film in maniera così scientifica da andare incontro ai gusti del pubblico che si ha in mente. Io penso che quando la storia trova un suo percorso, allora c’è un pubblico pronto a seguirla.
Quanto è cambiato il copione sul set, rispetto allo script? Per quali ragioni?
N.G.: Edoardo ci chiamava quasi sempre, ci siamo confrontati su più punti. Alcuni cambiamenti sono dovuti a problemi produttivi. La barca che si vede a metà film per esempio sulla carta era una villa su un’isola. Quando le gemelle scappano via c’era uno scontro più violento. Per il resto è tutto rimasto più o meno uguale.
B.P.: Rispetto allo script che avevo consegnato io prima di partorire non molto. Forse alcuni toni e accenti sono stati adeguati al contesto di un ambiente crudo e imponente come quello di Castel Volturno.
Dunque gli eventuali cambiamenti che si rendevano necessari venivano concordati fra voi e il regista? Siete stati presenti sul set?
N.G.: Ti ripeto, con Edoardo c’è stima reciproca. Ci siamo sentiti se c’erano dubbi. Non sono mai stato sul set. Ci vado di rado. Mi sento estraneo. E poi ero a Roma a lavorare.
B.P.: Io ero impegnata fra poppate e nanne ma Nicola mi aggiornava spesso.
Cosa pensate della situazione del nostro cinema in questi anni?
N.G.: Credo che servano idee nuove. Ironia, libertà. Dobbiamo affrancarci dal cinema pseudo d’autore che campa solo grazie ai fondi pubblici. Quello pretestuoso, arrogante, saccente. Dobbiamo liberarci delle commedie becere, furbe, già viste. Basta campi di grano in Puglia, personaggi che devono fare i conti con il loro passato, casalinghe frustrate che vogliono abortire e poi non abortiscono mai. Basta fabbriche dismesse e corse in motorino, basta crisi esistenziali.
B.P.: Il cinema in generale, non solo quello italiano, sta vivendo un lento ma sembra inesorabile esaurimento. I biglietti strappati sono sempre meno e i film che non hanno buone idee di partenza finiscono rapidamente nel dimenticatoio. Vince sempre quello che in gergo si chiama “high concept”. I grandi film drammatici con cui sono cresciuta ora al cinema non trovano più alcuno spazio e tutto questa enorme quantità di storie, più minimali, più leggere, più profonde si sono spostate in tv. Ci sono i festival, come riserve indiane, frequentati esclusivamente da addetti ai lavori, che ancora permettono a film più di nicchia, di avere una propria vita. Ma lo scollamento col grande pubblico è evidente. Non credo ci siano ricette da seguire per evitare questo e poi mi domando spesso se abbia senso cercare di invertire questa rotta. Mia figlia ha un anno e pochi mesi e già interagisce con l’ipad. La magia della sala buia e del film che comincia forse la vivrà solo per storie veramente meritevoli perché è anche vero che di storie brutte, già viste e autoreferenziali le nostre sale sono state infestate per tanto tempo…
Tra pochi mesi dovrebbe essere votata la legge cinema, secondo la quale la parte più rilevante dei fondi di sostegno alla produzione (circa l’80%) andrebbe ridistribuita tra coloro che hanno ottenuto i maggiori incassi nell’anno precedente. Cosa ne pensate?
N.G.: Non ne so molto e rischio di dire fesserie. Così come dici sembrerebbe che il rischio più grosso sia quello di finanziare solo chi i soldi già li ha. Da quello che ho capito, i soldi che darebbe lo Stato hanno l’obbligo di essere reinvestiti. Non è il sistema simile a quello francese?
Per come la vedo io, darei soldi solo alle opere prime e seconde. Trovo assurdo che registi al decimo o undicesimo film chiedano finanziamenti al Ministero, alle volte addirittura per un cortometraggio. Lavorerei sul fare in modo che i privati possano investire sul cinema. Creare le basi per mettere in piedi questa famosa industria.
B.P.: Ho smesso di informarmi sulle leggi cinema da diverso tempo perché ne ho speso troppo a cercare di capire leggi e cavilli che poi venivano modificati con strani meccanismi. Credo che facessi l’università, e sono passati svariati anni, che si parlava di legge del cinema e quant’altro… Comunque in linea generale non mi piace uno stato che sovvenziona un’industria. O c’è un mercato o non c’è. Agevolare gli investimenti privati dovrebbe essere una priorità.
Lo stato italiano, pur accogliendo la normativa europea che permette agli autori di scegliere una collecting di loro gradimento, ha deciso di non modificare la condizione di monopolio della Siae. Potrebbe esserci però una riforma interna della Siae stessa. In vista di questo, c’è qualcosa che modifichereste della situazione attuale? Che tipo di gestione vorreste per i vostri diritti d’autore?
N.G.: Vorrei una gestione chiara e trasparente. Semplice da controllare. Di per sé non condivido l’idea dei monopoli. Quindi va bene che lo si tolga alla SIAE e si dia libertà ad altre società di collecting. Mi arrivano i diritti SIAE, ogni tanto arrivano soldi del 2004. Non ne sapevo nulla. Perché non ne sapevo nulla?
B.P.: Sulla Siae purtroppo parlano i fatti che raccontano di una arretratezza imbarazzante su molti aspetti pratici della vita dei soci. Basti pensare che ancora non è stato approntato un sistema semplice per consegnare i bollettini che sono cartacei e affatto semplici da compilare. Servono le firme di tutti gli aventi diritto che bisogna andare a cercare in capo al mondo pena la non distribuzione dei legittimi proventi. Su questo da tempo mi domando: ma i soldi dei bollettini di serie tv che non sono stati compilati e consegnati dove stanno? Perché non vengono distribuiti agli aventi diritto senza dover ogni volta passare per moduli introvabili? I monopoli sono deleteri. Servirebbe una gestione trasparente e soprattutto la possibilità di affidare il mandato di riscossione del denaro anche ad altre società che magari sono più competitive e al passo coi tempi.
Cosa vi aspettate da Venezia?
N.G.: Ottimi cocktail.
B.P.: Che la stampa si ricordi di nominare tutti gli autori dei film in concorso e non… presenti e non…
Quali sono, secondo voi, le urgenze per la nostra categoria, in questo momento?
N.G.: Il rispetto, e il riconoscimento del nostro lavoro. Anche solo essere nominati nelle recensioni dei film che scriviamo, sembra una banalità, ma non avviene quasi mai. Molto spesso si dimentica di invitare gli sceneggiatori persino alle conferenze stampa. A proposito di Venezia, trovo assurdo che sul sito delle Giornate degli Autori, per esempio, nella scheda dei film, sulla prima schermata, non ci siano i nomi degli autori. Devi cliccare su “Leggi di più” e allora si apre un pdf con i nomi di tutti. Dove tra l’altro la voce “soggetto” non esiste.
B.P.: Ci sono tante urgenze per la nostra categoria. Basti pensare che non è regolamentato niente, dagli infortuni, alla malattia, alla gravidanza è tutto un far west. I nostri contratti sono pieni di doveri e obblighi e spesso non ci sono riconosciuti diritti che per altre categorie sono assodati. Il mio auspicio è che chi fa lo sceneggiatore senta il dovere di difendere la propria professionalità anche a costo di dire “no”. A volte fa bene a se stessi e alla professione.
(intervista a cura di Franca De Angelis)