Safari non è quello che avevamo pensato e ci aspettavamo.
Nessuna tortura viene perpetrata ai danni degli animali, nessuna scena ci induce a chiudere gli occhi per il disgusto e per nessuna ragione ci sentiamo indignati per la pratica della caccia.
Ulrich Seidl si annulla. La telecamera rimane ferma, non giudica, non prende posizione e non cerca di convincere lo spettatore che la caccia sia giusta o sbagliata, lavora come gli occhi di una persona che si trova lì per caso e comincia ad assistere ad una giornata di caccia di una famiglia, di due amici anziani o di una coppia di giovani appassionati di caccia.
Mondo Cane di Jacopetti è l’ispirazione che ha guidato Seidl: il tedesco va a girare in un luogo selvaggio, lontano dagli uomini, dove gli animali si muovono liberi per essere abbattuti dai cacciatori, mostrandoci una tradizione che conosciamo solo per sentito dire.
Safari ci fa ridere e per questo ci fa raccapricciare. Il regista non ha nessuna posizione verso la caccia, la sua mano scompare e rimangono gli animali che vediamo lontani; i colli delle giraffe, le corna dei buoi,le strisce delle zebre e l’erba che si agita al passaggio delle bestie selvagge. I cacciatori uccidono e poi preparano la bestia per una foto “ricordo”:mettono il suo collo su una pietra, tagliano le erbacce che rovinano la composizione e poi studiano l’angolo migliore da cui scattare.
Il regista non si inventa nulla. La caccia è questa e dipende dallo spettatore inorridire o rimanere indifferente.
L’orrore di Safari sta nel pensiero, nel ragionamento che fa lo spettatore, come in Volver di Almodovar, nel quale una storia orribile di incesto viene raccontata senza mostrare nulla.
Seidl avrebbe forse meritato il concorso e, in generale,meriterebbe un minimo di considerazione in più. Perché provocatori come lui, ne sono rimasti pochi…
Fra commenti filo-nazisti dei tedeschi verso i neri africani e grandi momenti di caccia, se ne vanno i 90 minuti di Safari, uno dei prodotti più interessanti visti finora a Venezia.