Quello della violenza sulle donne è un tema tristemente attuale, che proprio in virtù della sua importanza ci è già stato sottoposto in ogni possibile variante e raccontando il quale è facilissimo scadere nella più consunta retorica. Consapevole di questo, l’interessantissimo sguardo di Ivano De Matteo decide di non soffermarsi sulla morbosità della violenza e sul rapporto di coppia malato, bensì di posarsi sulla rinascita che segue la liberazione dal giogo del sopruso.
Il grande merito della pellicola è quello di fare intravedere una ‘luce in fondo al tunnel’.
In La Vita Possibile la violenza viene solo rapidissimamente accennata in apertura, mentre il vero scopo della pellicola è evidentemente raccontare il tentativo di rinascita di Anna (Margherita Buy), madre amorevole che dopo aver denunciato gli abusi del marito violento scappa lontano da casa con il figlio Valerio (Andrea Pittorino). Anna trova rifugio a Torino dall’amica di sempre Carla (Valeria Golino), una zitella – è un termine politically uncorrect? – vagamente eccentrica che nella vita fa l’attrice teatrale. L’amicizia tra le due è una vera ancora di salvezza per la protagonista, che cerca immediatamente di rendersi economicamente indipendente e ritrovare una normalità accontentandosi del più umile degli impieghi. Nonostante i sacrifici e l’affetto delle due donne però il repentino trasferimento e il difficile inserimento sociale turbano Valerio, che finirà per cercare l’amicizia di una prostituta e del proprietario di un bar.
Per raccontare l’amore malato (che amore non è) De Matteo si è ispirato a storie vere e atti processuali.
Con La Vita Possibile De Matteo si lascia alle spalle la trilogia con cui ha raccontato il disfacimento della famiglia (La Bella Gente, Gli Equilibristi, I Nostri Ragazzi) per intraprendere la strada opposta e concentrarsi sulla ricostruzione. Per farlo il regista rifugge dal sensazionalismo e utilizza lo sguardo del figlio – mai vittima diretta di abusi – per offrire un punto di vista diverso da quello femminile, ottenendo toni delicati nonostante gli sviluppi della storia promettano una certa intensità.
Il passato da documentarista del regista, che lavora in tandem con la sceneggiatrice Valentina Ferlan – nella vita sua compagna da 27 anni – emerge nell’intenzione di inserire quanta più realtà possibile nella finzione: le parole del marito sono la versione edulcorata di quelle presenti in un vero verbale di denuncia, la lettera dell’uomo è presa da una raccolta di missive vere (il libro No te mueres por mi), le dinamiche e i dubbi di Anna sono quelli delle donne con cui il regista ha parlato nei centri anti-violenza e il comportamento del figlio è stato ricalcato sui racconti di una psicologa infantile. Anche nella conferenza stampa di presentazione il cineasta, spontaneo e affabile come sempre, rimarca la sua intenzione di fare un cinema “neo-neorealista”, radicato con tutti e due i piedi nella realtà.
La realizzazione della pellicola sarebbe più che pregevole, se non ci fosse un serio problema con la naturalezza di script e interpretazioni.
De Matteo ha sempre una mano interessante e movimenti di macchina di grande eleganza, e il punto di vista ‘dal basso’ che adotta ogni volta voglia concentrare l’attenzione su Valerio è meravigliosamente accompagnato dall’impeccabile fotografia di Duccio Cimatti, sempre calda e caratterizzata da frequenti bokeh. La possibile ricerca di un’armonia si infrange però, sorprendentemente, su uno script che a tratti procede con il pilota automatico (la linea narrativa legata alla prostituta è terribilmente pretestuosa e innaturale) e ha dialoghi insopportabilmente artificiosi. I bambini non parlano come parlerebbero dei bambini, il marito violento – per esplicita e inspiegabile volontà degli autori – non parla come un marito violento e anche le parti delle donne risultano a tratti troppo ‘scritte’ e poco immediate. A peggiorare irrimediabilmente il risultato le interpretazioni a tratti inaccettabili: Margherita Buy, nonostante in alcuni passaggi sia benissimo in parte, regala comunque momenti di puro imbarazzo (il dialogo sul ponte con il figlio è da antologia del trash), la sempre brava Golino qui non centra a perfezione il tono della ‘zia-zitella-attrice’ calcando troppo la pur ricercata forzatura nell’interazione con Valerio e il giovanissimo Pittorino, che avrà tutto il tempo per migliorare, sembra spesso che legga una lista della spesa piuttosto che un copione. Unica luce del comparto attoriale l’ottimo Bruno Todeschini, che non si lascia piegare da uno script che lo trasforma in un caricaturale gattaro e riesce comunque a offrire la performance perfetta per la parte.
In conclusione il film, girato in sole cinque settimane, offre un approccio semplicemente perfetto al tema e lascia trasparire la grandissima sensibilità del regista, ma soffre di una artificiosità d’insieme che, a dispetto dei numerosi ‘inserimenti di realtà’, mina fortemente la credibilità della messinscena. De Matteo, che in passato è stato di casa a Venezia e che quest’anno sarebbe stato disposto a partecipare anche alle sezioni collaterali, è stato totalmente ignorato dalla Mostra del Cinema, e non sarebbe difficile ipotizzare le ragioni dell’esclusione se non fosse per la presenza al Lido di script e interpretazioni davanti alle quali La Vita Possibile non sfigura di certo. Un tentativo non riuscitissimo cui va riconosciuto il merito di mostrare che alla violenza di genere ci sono delle alternative possibili.