I resoconti audio delle ricerche sul campo effettuate negli anni ’50 da Ernesto De Martino e collaboratori sul fenomeno dei tarantati nel Salento comunicano una cupezza e un senso di morte che raramente accade di ascoltare.
Più di sessant’anni fa, tracce audio, foto e filmati documentavano un’Italia arcana e oscura, in cui si scendeva a patti con la miseria esistenziale e materiale attraverso riti di liberazione da paure cui i contadini delle campagne pugliesi non sapevano dare un nome, poiché sprovvisti degli strumenti più elementari di comprensione dell’interiorità.
I riti catartici della taranta e le relative manifestazioni fisiche e psichiche di questo “male” (urla, movenze inconsulte, stati di trance e incoscienza), sfioravano e spesso coinvolgevano la Chiesa ufficiale, tant’è vero che molti di essi si svolgevano addirittura nelle cattedrali.
L’Italia del boom economico avrebbe probabilmente voluto ignorare questi oscuri territori, protesa com’era nella rincorsa allo stile di vita dei Paesi allora più progrediti: tuttavia, non si cancellano secoli di mentalità contadina, soprattutto in una nazione in cui l’atteggiamento nei confronti del progresso scientifico è sempre stato di timorosa diffidenza e in cui la commistione di paganesimo (mai del tutto sopito) e capillare controllo ecclesiastico sono sempre stati più che evidenti.
L’Italia di ora è affannosamente, a volte con risultati tragicomici, ancora alla rincorsa dello stile di vita di cui sopra, ma una mentalità autenticamente laica da noi non ha mai attecchito, e infatti esistono realtà come quella documentata da Federica Di Giacomo con il suo documentario Liberami.
Ciò che spaventa, in Liberami, non è tanto il resoconto filmato delle crisi dei posseduti (o meglio, delle possedute: si tratta quasi sempre di donne, proprio come nel Salento di De Martino), quanto il disagio che si intuisce dietro le storie di ognuno di essi e la constatazione che, in alcune zone del nostro Paese, il progresso tecnologico sia solo un elemento di facciata che spesso si limita all’ultimo modello di smartphone, senza intaccare una mentalità rurale atavicamente radicata.
La regista sceglie uno stile asettico, da documentario scientifico: il suo intento è mantenere uno sguardo neutrale ottenendo un effetto di inquietudine e generando interrogativi nello spettatore.
Il film, sebbene qua e là si colgano elementi di tipo narrativo che servono probabilmente a rendere più comprensibili le storie dei vari personaggi, ha l’aspetto di un resoconto antropologico, dallo stile scarno e severo.
La Palermo in cui Liberami è ambientato è una città irriconoscibile, priva sia di magnificenza che di degrado urbano da reportage, anzi: non è più nemmeno una città, poiché l’azione si svolge esclusivamente all’interno di una parrocchia dove il protagonista, un frate esorcista, riceve quotidianamente decine di “posseduti”. La provenienza geografica di queste persone si intuisce solo dall’accento, poiché tutto gravita claustrofobicamente nello spazio tra la canonica, la chiesa e un cortiletto.
Un elemento che salta agli occhi durante la visione di Liberami è la bruttezza dei luoghi e l’aspetto dimesso delle persone che li frequentano, quasi esistesse un canale sotterraneo di trasmissione del disagio tra gente e ambienti.
Peppino Impastato, siciliano anch’egli, sosteneva quanto fosse fondamentale l’educazione alla bellezza, fin dalla più tenera età; in Liberami è evidente che i protagonisti non sono usi alla bellezza. Si intuisce dai loro gesti, dal loro aspetto, dal loro atteggiamento esistenziale.
La maggioranza delle persone che richiedono l’assistenza dell’esorcista sono donne, anche molto giovani; esistono diverse spiegazioni che riguardano questo aspetto. La prima potrebbe aver a che fare con il tradizionale ruolo di custodi del sacro e del soprannaturale che in quasi tutte le comunità è appannaggio femminile e che si pensa ne favorisca il contatto con elementi soprannaturali; la seconda, con la pressione e il controllo sociale informale che in comunità e società a modesto grado di emancipazione femminile viene esercitata sulle donne stesse. Queste ultime, non potendo dar sfogo alle nevrosi accumulate, le manifestano nell’unico modo socialmente approvato dalla cultura di riferimento, quindi attraverso la possessione che è insieme riconducibile a un elemento terzo e inafferrabile (il demonio) e alla diagnosi e cura da perte una persona che funge da tramite con il potere divino e che – guarda caso – è un uomo. I rapporti gerarchici sono dunque salvi, le apparenze anche e si supera la temuta psicoterapia, i cui fondamenti scientifici sono appunto guardati con diffidenza e sfiducia.
I personaggi principali di Liberami sono diversi e complessi; ciò rende molto complicato decidere su quale storia concentrarsi.
Forse, sarebbe opportuno riassumere le vicende di due giovani, un ragazzo e una ragazza.
Il primo, immagine da rapper di strada, sembra lontanissimo dalla disadorna canonica dell’esorcista; si intuiscono i suoi gravi problemi con i familiari (sembra di capire che sia stato allontanato da casa o che comunque abbia rapporti pressoché inesistenti con i genitori), l’affanno quotidiano, il non sapere letteralmente a che santo votarsi.
Il ragazzo arriva in parrocchia un po’ spaesato, la vecchia che aiuta l’esorcista lo rimprovera per i piercing e i tatuaggi, nemmeno lui sa bene cosa ci faccia lì. Per tutto il resto dell’azione, la sensazione che lui voglia credere a tutti i costi a quest’ultima spiaggia si ripropone costantemente.
Il secondo personaggio è una ragazza, e la sua vicenda è ben più dolorosa. Giulia – così si chiama – manifesta frequenti e violenti episodi di possessione che la sfiniscono. L’aspetto più inquietante della sua storia però non è rappresentato dai frequenti riti di esorcismo ai quali la famiglia la sottopone, ma dalla famiglia stessa.
La famiglia di Giulia si presenta sempre al completo: questa caratteristica non deve essere certamente sfuggita alla regista, che infatti filma queste persone con inquadrature molto strette, quasi a voler rendere il senso di soffocamento subito da una ragazzina che pare non avere scampo dal padre tracotante e autoritario e dalla madre ciecamente religiosa. Il fratello minore di Giulia non parla mai e partecipa attonito ai rituali che vengono praticati anche a casa, quando la ragazza ha le sue crisi periodiche: i genitori stretti a lei recitano spasmodicamente preghiere, la madre le applica pezze fredde sulla fronte in un salotto brutto e spoglio, in una scena che toglie il respiro.
Nessun rispetto per la personalità e la fragilità di una creatura che sta mutando in un’età difficile da attraversare e che si vuole a tutti i costi ricondurre in un alveo anacronistico e improponibile.
La salvezza per Giulia sarebbe fuggire lontano, altro che esorcismo.
Infine, il frate esorcista, un personaggio sui generis che regala allo spettatore incredulo e turbato momenti di autentica comicità involontaria: egli è di gran lunga il più scettico e disincantato tra tutti, esercita il suo “potere” in modo sbrigativo e a volte infastidito, detesta fermarsi a parlare con fedeli realmente in difficoltà che gli confidano le loro preoccupazioni e soprattutto pratica splendidi e divertenti esorcismi telefonici, con tanto di auguri natalizi finali.
Le note in coda al film recitano cifre in continua espansione in Europa e negli Stati Uniti che riguardano i riti di liberazione dal demonio; chiaro segno, questo, di una profonda e generale crisi esistenziale cui gli strumenti culturali di tipo scientifico faticano a dar risposta.
Liberami ha vinto la sezione Orizzonti della 73° Biennale Cinema a Venezia; una scelta coraggiosa della giuria ha premiato un’opera davvero nuova, disturbante, curiosa.
Unica pecca, la durata: 97 minuti, come un film narrativo tradizionale, a volte vanno a discapito dell’attenzione dello spettatore.
Un ritmo leggermente più serrato avrebbe giovato all’intera opera.
Venezia 73 – Liberami: la recensione in anteprima
Arriva in sala il 29 settembre il documentario sugli esorcismi vincitore nella sezione Orizzonti della Mostra di Venezia.