Riprendere una buona idea di quasi vent’anni prima è essa stessa una buona idea? Se il termine di paragone deve essere, come inevitabilmente lo è, tra The Blair Witch Project del 1999 e Blair Witch del 2016 la risposta è purtroppo negativa. Il cinema vive e spesso prospera di sequel, riadattamenti e remake; fin qui nulla di scandaloso, sebbene tali scelte siano discutibili e accompagnate da punti di vista diversi che dividono il pubblico. Il problema nasce purtroppo quando una pellicola non riesce a portare qualcosa di diverso e innovativo, anche da punto di vista tecnico e tecnologico, se vogliamo. Lo status quo rappresentato da Adam Wingard fa sì che il film da cui trae origine, The Blair Witch Project, sia messo ancor più in risalto e sia giustamente considerato con il passare del tempo il capostipite ancora insuperato del mockumentary horror.
La storia inizia anni dopo la scomparsa di Heather Donahue nella foresta di Black Hills, nel Maryland. La leggenda narra che nel ’700 gli abitanti della città di Blair, poi abbandonata e inghiottita dalla foresta, torturarono e uccisero selvaggiamente una donna il cui spirito si rifugiò nei boschi e iniziò a vendicarsi. Al fratello di Heather, James, è pervenuto un filmato che la ragazza girò a Black Hills con l’intento di produrre un documentario che desse risposte su quella storia. Ma le risposte non ci sono e James insieme ad altri cinque ragazzi si reca in quei luoghi dove, a sua volta, userà la telecamera per documentare la ricerca della sorella.
La tecnica usata dal regista statunitense non è brutta, si vede chiaramente che Wingard padroneggia il mezzo, al quale però non riesce mai a dare il senso della contemporaneità. In The Blair Witch Project la tensione è palpabile ma era il 1999 e per produrre lo stesso effetto oggi ci vorrebbe probabilmente qualcosa di diverso. E non è che l’ausilio di un drone che i ragazzi useranno, peraltro senza successo, basti a colmare questo gap. A ciò si aggiunga, negli ottanta minuti di pellicola il limite è davvero vistoso, forse troppo vistoso, la ridondanza del girato (abuso soprattutto dello buio della telecamera per sottolineare le riprese amatoriali) e degli accadimenti, che sono esattamente come lo spettatore non si aspetta, ovvero senza colpi di scena. In questo senso sì, sono una sorpresa. Non appaia ingeneroso, ma quando nel bel mezzo della foresta e già in “zona aspettative” ad una ragazza pare di aver sentito qualcosa di sinistro e subito dopo dice “no niente, ho le orecchie che mi fanno scherzi”, si è portati a pensare che sia il preludio a qualcosa di mostruoso. Invece niente, aveva ragione; il tempo passa e niente accade che possa in qualche modo far prendere quota alla pellicola nonostante il drone. Ma a volte aspettarci che un film si comporti secondo gli schemi classici può essere anche un limite di chi lo guarda. E in questo senso la lotta contro i nostri fantasmi interiori è una possibile chiave di lettura.
Permane però l’impressione che Adam Wingard, nonostante gli incolpevoli attori facciano del loro meglio, non abbia voluto seguire fino in fondo una scelta registica chiara, coerente, omogenea e così quando inserisce una scena di horror trash cala la notte su Black Hills e anche sul film. Di streghe naturalmente neanche l’ombra e per vederle allo spettatore non resta altra scelta che assopirsi e sperare di sognarle.
Blair Witch: la recensione
A vent'anni di distanza dal leggendario found footage horror, la strega di Blair torna in una pellicola non entusiasmante diretta da Adam Wingard.