Emanuela Orlandi, quando il 22 giugno 1983 non fece ritorno a casa, non era altro che una ragazza quindicenne con una vita normalissima e una sincera passione per la musica. Inizialmente non era nemmeno certo se fosse stata vittima o meno di un rapimento, ma quando presto si intuì che la sua unica colpa era quella di esser figlia di un commesso della Prefettura della Casa Pontificia, i contorni della sparizione divennero ben più complessi.
Da allora sono passati trentatré anni, e nonostante la verità rimanga ancora una chimera, quel che è certo è che a proposito di quel fatto di cronaca nera sono stati tirati in ballo interessi tutt’altro che limpidi del Vaticano, la criminalità organizzata (in particolar modo la Banda della Magliana e quella dei Testaccini), le istituzioni deviate, gli istituti bancari, i servizi segreti di diverse nazioni e movimenti estremisti come quello dei Lupi Grigi.
Quello della scomparsa della Orlandi è sì un mistero legato a doppio filo alla storia italiana degli ultimi decenni, evidentemente ramificato nelle numerose zone grigie in cui i gangli del potere istituzionale si sovrappongono agli interessi criminali, ma è soprattutto la storia tristissima di una ragazza incolpevole travolta da eventi più grandi di lei e del dolore e della perenne incertezza con cui hanno dovuto fare i conti i suoi familiari, ai quali ancora oggi non è stata restituita la giustizia di una verità e che non possono piangere il corpo della loro cara – sempre che sia effettivamente deceduta.
La complessa vicenda non era mai stata raccontata al cinema, e soprattutto ora che l’inchiesta è stata archiviata senza che si sia giunti a nessuna verità processuale definitiva, il lavoro di Roberto Faenza è un importantissimo atto di impegno civile per ricordare un episodio che troppo a lungo è stato oggetto di depistaggi e insabbiamenti.
La Verità Sta In Cielo, di cui Faenza firma sceneggiatura e regia, parte dallo spunto narrativo di un’inchiesta giornalistica inglese per portare in scena un meticoloso reenacting degli atti processuali del caso Orlandi.
Faenza ha da sempre una predilezione per i cold case e il suo impressionante curriculum, in cui a numerose produzioni cinematografiche internazionali si alternano altrettante pubblicazioni saggistiche legate alla sua laurea in scienze politiche, sembrerebbe farne il regista perfetto per questa ‘operazione verità’. Se poi consideriamo che nel mirabilissimo lavoro di ricerca preparatoria è stato aiutato dalla famiglia di Emanuela, e che alcuni degli elementi emersi potrebbero addirittura far riaprire il caso, è evidente quando La Verità Sta In Cielo possa essere un piccolo ma importantissimo passo avanti nel percorso apparentemente infinito verso la soluzione del caso Orlandi.
Detto questo, però, subentra la componente artistica della realizzazione di un film, e purtroppo sembra proprio che alla grandissima attenzione di Faenza verso il lavoro di ricerca e ricostruzione corrisponda un altrettanto lapalissiano disinteresse verso la messinscena cinematografica, che presenta una trascuratezza tecnica e artistica di gran lunga più preoccupante rispetto a quella che ha reso famigerate le peggiori fiction televisive italiane.
I problemi sono evidenti sin dallo script, che indulge con qualsiasi mezzo possibile su ‘spiegoni’ forzatissimi ma che al contempo risulta incomprensibile a chi non abbia una buona conoscenza degli eventi susseguitisi nei primi anni successivi alla sparizione, rendendo quella che poteva essere una pellicola in parte ‘divulgativa’ un approfondimento riservato relativamente a pochi. Come se non bastasse i dialoghi sono quanto di più innaturale e artificioso si possa concepire, a volte sono addirittura oggetto di correzioni successive al girato (tanto da comportare uno sgradevolissimo doppiaggio di un diverso parlato, italiano su italiano) e come se non bastasse sono affidati a interpretazioni attoriali a dir poco distratte, in cui un parlato cantilenante con punte gigionesche e un’inespressività vitrea affossano definitivamente la pagina (il riferimento è in particolare a Maya Sansa, qui trasformata in ‘promoter’ involontaria di un tablet Android, alla bellissima e spesso brava Valentina Lodovini, ma anche a Shel Shapiro).
Uno script problematico potrebbe in parte esser salvato da una confezione accurata, ma non è certo questo il caso: ogni attore, poltrona o evento viene posizionato sempre in favore di camera come in una trasmissione televisiva, c’è un abuso ingiustificato dello zoom come se ancora fossimo negli anni ’70, e i dialoghi sono raccontati con un ping-pong tra campo e controcampo che ha del dilettantesco.
Anche chi normalmente lavora magnificamente qui non riesce a brillare, e viene quindi il dubbio che il problema principale del film sia proprio la guida di Faenza: il montatore è l’ottimo Massimo Fiocchi (Io Non Ho Paura, Educazione Siberiana), ma i tagli arrivano sempre troppo tardi (effetto “F4/basito”) o troppo presto; la fotografia è affidata al grande talento di Maurizio Calvesi (Le Confessioni, Non Essere Cattivo, Mine Vaganti) eppure c’è un eccesso di illuminazione e in alcuni casi sono evidenti gravissime incoerenze di color grading (la scena in cui avviene il passaggio della Orlandi da De Pedis all’autista è un puzzle inaccettabile) e addirittura il geniale Teho Teardo, che ha segnato la fortuna di molti film cui ha partecipato, qui si impigrisce su tappeti sonori non certo originali. La traccia audio soffre infine di uno sbilanciamento fastidiosissimo tra suoni ambientali e parlato a favore di quest’ultimo, e nonostante l’operato di Brando Mosca, vincitore di un David come fonico di presa diretta per Cesare Deve Morire nel 2012, risulta indifendibile.
Fortunatamente c’è anche qualche nota positiva, e se l’interpretazione della brava Greta Scarano (già apprezzata in Suburra) riesce a emergere nella sua naturalezza nonostante il rigido trucco prostetico dietro il quale è spesso trincerata, il vero mattatore è Riccardo Scamarcio, che si è ormai definitivamente liberato della cattiva fama degli esordi ed è semplicemente impeccabile nel ruolo del boss ‘Renatino’ De Pedis.
In conclusione il cineasta Faenza fallisce clamorosamente e ci consegna un’opera filmica dalla realizzazione risibilmente scadente, ma ha il grandissimo merito di tenere accesi i riflettori su una vicenda che aveva un bisogno disperato di essere raccontata, di dare voce a chi da anni combatte senza sosta per la verità e di incuriosire chi quella vicenda ancora non la conosce.
In questo senso La Verità Sta In Cielo è un film necessario, la cui visione in sala non può che essere raccomandata. Starà poi a voi scegliere quanto essere clementi o meno nel giudizio artistico e tecnico.
La Verità Sta In Cielo: la recensione in anteprima (NO SPOILER)
Faenza ricostruisce per il grande schermo i retroscena della sparizione di Emanuela Orlandi, tra perizia storica e pigrizia artistica. Ottimo Scamarcio.