Luke Cage è il nome con cui si è rifatto una vita Carl Lucas, ex poliziotto accusato di un crimine mai commesso e fuggito dal carcere in cui un esperimento ‘fallito’ gli ha conferito una forza e una resistenza sovrannaturali. Cage è un gigante buono provato dalla vita, che vorrebbe solo badare ai fatti propri, timido e ‘invisibile’. In realtà i guai andranno ben presto a cercarlo e nonostante il suo tentativo di restare lontano dai problemi, dovrà presto prendere atto di come il suo ‘dono’ inutilizzato possa essere l’unico modo per salvare la propria gente (e la propria reputazione).
Queste le premesse da cui parte la nuova serie ambientata nell’universo Marvel/Netflix, che arriva al quarto appuntamento (dopo le due stagioni di Daredevil e quella di esordio di Jessica Jones) rendendo evidente quanto sia difficilissimo, nonostante gli sforzi più che apprezzabili e un risultato di livello comunque alto, replicare la fortunata formula che ha reso il debutto di ‘Diavolo di Hell’s Kitchen’ un vero caso televisivo. Luke Cage, terzo eroe su cui il web service di Los Gatos ha deciso di indirizzare la propria attenzione, è il primo personaggio di colore che la Marvel abbia reso protagonista di una collana dedicata ed è probabilmente il meno conosciuto tra quelli fin qui comparsi sul piccolo schermo. Questa scarsa notorietà ha permesso allo showrunner Cheo Hodari Coker (attualmente al lavoro sull’adattamento cinematografico del cartoon anni ’80 M.A.S.K.) notevoli libertà creative e così l’hero for hire si è trasformato da mercenario vestito da Village People in uno schivo giustiziere dal cuore d’oro che vuole solo aiutare la propria comunità.
UNA SERIE INCENTRATA SULL’IDENTITÀ NERA
Scordatevi il barista sexy già apparso brevemente in Jessica Jones: qui infatti non c’è traccia del character piatto ed erotizzato visto in precedenza e fortunatamente c’è il tentativo, molto ben riuscito, di conferire al personaggio interpretato da Mike Colter una tridimensionalità di tutto rispetto, il cui compito principale è la compensazione del modestissimo carisma che lo caratterizza in quanto supereroe.
È ormai evidente come Netflix studi i propri prodotti su dei target specifici, e se Daredevil è la serie per i ‘maschi bianchi’ e Jessica Jones quella ‘per donne’, Luke Cage è quella ‘per neri’, mentre il prossimo Iron Fist promette di essere un installment dedicato agli appassionati di cultura orientale.
L’identità afroamericana è inequivocabilmente l’unica vera colonna portante di Luke Cage e, considerato quanto il tema dei diritti delle ‘minoranze’ (numericamente molto pesanti) sia sentito ai tempi del movimento Black Lives Matter, la scelta permette di trattare argomenti decisamente attuali e concreti. Per non politicizzare troppo la serie, però, la tematica viene ‘disinnescata’ evitando accuratamente lo scontro razziale e concentrandosi su una lotta interna ad Harlem per quale debba essere il ruolo degli afroamericani nel tessuto sociale newyorkese. Il discorso sui diritti civili ha comunque un peso tanto rilevante che verrebbe quasi da dire che Luke Cage è più un racconto sull’impegno sociale che sul supereroismo. Il più lontano dai cliché apparentemente irrinunciabili dei cinecomic tra quelli visti sinora, nel bene e nel male.
TRA BOARDWALK EMPIRE, THE GET DOWN E UN TELEFILM ANNI ’70
Il mix che caratterizza Luke Cage è decisamente inaspettato, e quel che salta subito agli occhi è come la musica rivesta un ruolo molto più importante dei cazzotti. Che sia suonata (e ne viene suonata tanta) nel locale di Cottonmouth, che venga dalle strade o che accompagni le scene d’azione, la colonna sonora è a dir poco straordinaria e tra soul, r&b e hip hop conferisce un’identità molto forte rispetto alle altre serie Marvel e rafforza non di poco la vocazione ‘black’ del prodotto. La presenza fissa del locale di Cottonmouth – soprattutto nella prima metà del ciclo – crea un déjà vu che rimanda esplicitamente al Nucky Thompson di Boardwalk Empire, mentre la forte connessione tra lotta per i diritti civili, libertà e musica nera è una delle costanti di questo 2016, da Hamilton a The Get Down.
A unire il tutto, un linguaggio filmico molto debitore nei confronti dei telefilm a cavallo la tra fine dei ’70 e l’inizio degli ’80, quelli in cui non a caso era frequente imbattersi in un protagonista capace di sconfiggere cartelli criminali a suon di sganassoni, che è un po’ quello che fa Luke Cage.
La forma da sola però non basta, e quando andiamo ad analizzare lo script ci accorgiamo che proprio quella sceneggiatura che è stata il punto di forza di molti prodotti Netflix, qui crolla miseramente.
Le premesse sono ottime, Cage è costruito bene e gli elementi per definire la sua personalità e motivarlo all’azione sono ottimamente congegnati. Quello che inizialmente sembra l’unico villain, Cottonmouth – un Fisk con una passione per la musica reso straordinariamente dal maiuscolo Mahershala Ali, già visto come Remy Danton in House Of Cards e recentemente protagonista di una performance da Oscar in Moonlight di Berry Jenkins) – è assolutamente convincente e, proprio come accadde per Wilson Fisk in Daredevil, ruba la scena all’eroe. Senza che ve ne fosse alcun bisogno però più la stagione progredisce più si affolla di villain (Diamondback, Shades, Black Maria e mille sgherri), e così mentre nessuno di questi riesce ad essere lontanamente memorabile (per usare un eufemismo) l’impressione è che gli autori non sappiano che pesci prendere e per allungare il brodo siano costretti a puntare più sulla quantità che sulla qualità. Stesso discorso vale per i personaggi femminili, mai sfruttati a dovere e in compenso trasformati tutti in interesse sentimentale del protagonista, che tra una puntata e l’altra finisce per avere un’intesa speciale con tre diverse donne senza che questo abbia alcun peso considerevole nella storia. L’impressione è che in generale la serie soffra di una durata eccessiva, e che con 4 episodi di meno sarebbe stato possibile lavorare a un arco narrativo perfetto, meno ambizioso e confuso ma più efficace.
Al momento Luke Cage, pur rimanendo un prodotto di buona qualità e di gran lunga superiore alla concorrenza ABC (vedi Agents of S.H.I.E.L.D.), è la più debole tra le realtà seriali prodotte da Netflix su licenza Marvel. Considerato quanti personaggi sono stati ‘bruciati’ durante questi tredici episodi, rimane l’impressione che a Los Gatos non abbiano mai seriamente pensato di puntare su una seconda stagione della serie, ma quel che è certo è che dopo la parentesi ‘asiatica’ di Iron Fist rivedremo Cage nella prima serie team-up Marvel/Netflix: The Defenders. In quel caso il villain sarà Sigourney Weaver, quindi sarà quantomeno improbabile che gli showrunner vogliano sottrarle spazio per condividerlo con una moltitudine di cattivi. Almeno questa è una buona notizia.
Fatevi un grandissimo favore: se ancora dovete guardare Luke Cage, fatelo in inglese (eventualmente con i sottotitoli). Le performance vocali sono a volte straordinarie, mentre questo doppiaggio non riesce proprio ad esserlo.