Il 16 settembre del 1985, alle 7:19 del mattino, il Messico venne colpito da un terrificante terremoto di magnitudo 8 della scala Richter che causò decine di migliaia di morti e colpì duramente anche la capitale Città del Messico: da questo evento quasi apocalittico è ispirato il film 7:19, inserito nella selezione ufficiale della 11° Festa del Cinema di Roma e diretto da Jorge Michel Grau, regista al suo terzo lungometraggio dopo Somos Lo Que Hay (che ha avuto anche un remake americano) e Big Sky.
7:19 ripercorre le vicissitudini di alcune persone vittime di quel devastante terremoto.
Un lungo piano sequenza iniziale ci introduce i personaggi del film, convocati per una riunione straordinaria in un ufficio governativo; proprio nel momento in cui la giornata lavorativa sta per cominciare, all’improvviso il terremoto seppellisce i presenti sotto tonnellate di lamiere e cemento. Chi è sopravvissuto, come il guardiano notturno Martin (Héctor Bonilla) e l’alto funzionario Fernando (Demián Bichir), cercherà di rimanere aggrappato alla propria vita aspettando disperatamente qualcuno che li tiri fuori da lì.
La pellicola, nonostante sia ambiziosa, non è particolarmente riuscita.
Di film dove i protagonisti si trovano intrappolati al cinema ne avevamo già visti (uno su tutti, il film di Danny Boyle 127 Ore del 2011) ma bisogna dire che l’intento iniziale di Grau era coraggioso perché non è facile realizzare un’opera girata prevalentemente in un set di ridotte dimensioni (4×4 metri) e dove, per quasi tutta la sua durata, i personaggi parlano tra loro rimanendo praticamente sempre immobili; per fare questo però è necessaria un’impostazione drammaturgica tale da permettere allo spettatore di entrare dentro la storia, cosa che qui manca completamente: il regista non riesce infatti a creare tensione e non permette, a chi guarda la pellicola, di empatizzare minimamente con i personaggi (se vivono o muoiono a noi che guardiamo importa molto poco). Altro grande problema di 7:19 è nella gestione del ritmo e del registro narrativo perché nella prima parte prevale l’elemento drammatico che, nonostante sia la parte più realistica e potenzialmente interessante del film, è di una lentezza esasperante da annoiare anche lo spettatore più attento e concentrato; rendendosi probabilmente conto di non poter continuare in questo modo, Grau nella seconda parte decide di cambiare registro nel momento in cui inserisce un paio di personaggi fuori campo che interagiscono con i due protagonisti e da qui, improvvisamente, entra in gioco la commedia. Ora, ci può stare che in una situazione del genere i sopravvissuti cerchino in tutti i modi di esorcizzare la tragedia alleggerendo la situazione ma da qui a mettere in scena addirittura dei siparietti comici ce ne passa di acqua sotto i ponti.
Il film vorrebbe anche criticare la corruzione dei burocrati nel paese messicano.
Jorge Michel Grau è un regista che usa il cinema di genere (come l’horror e il crime) per raccontare storie sulla condizione umana e sulla situazione politica in Messico; in questo film ci sono dei riferimenti precisi contro gli amministratori pubblici (qui viene presa di mira la gestione degli appalti) ma il tutto è sviluppato dal filmmaker in maniera ridicola ed assolutamente non credibile (in una scena che è quasi grottesca per quanto sia improbabile).
É un peccato che questo film abbia deluso le aspettative perché nonostante tutto è girato bene e gli attori sono bravi (soprattutto Bichir, che ha collaborato recentemente con Tarantino in The Hateful Eight e con Robert Rodriguez in Machete Kills) ma 7:19, ahimè, è solo una grande occasione sprecata.