Tra i più famosi eredi del neo-realismo italiano e tra i più importanti autori del cinema europeo, i fratelli Luc e Jean-Pierre Dardenne tornano nelle sale dopo il grande successo di Due giorni, una notte del 2014. La ragazza senza nome è un’immigrata di colore che cerca rifugio nel piccolo ambulatorio della dottoressa Jenny Davin (Adele Haenel), la quale però si rifiuta di aprire il portone dopo l’orario di chiusura. Ma quando la stessa ragazza viene trovata morta poco dopo, la dottoressa è assalita da un profondo senso di colpa che la porterà ad indagare su questa fine sospetta e soprattutto sull’identità sconosciuta della ragazza, in modo che non venga sepolta in forma anonima e senza affetti vicino.
I Dardenne portano in scena un film che a grandi linee li rispecchia: senza manierismi registici, tanto meno da parte degli attori che devono sempre risultare naturali e trasparenti nella loro interpretazione, con una storia estremamente semplice nel suo svolgersi e concludersi, con la provincia di Liegi a fare da sfondo. Un film che non è semplicemente la storia di un’indagine su un cadavere: proprio come nei nostri film neorealisti, la macchina da presa segue i personaggi in piano sequenza, in maniera silenziosa, quasi di nascosto, ne ritrae ogni minimo particolare e ogni dettaglio più insignificante tanto è naturale, come rispondere al telefono, versare il caffè in una tazzina, fumare alla finestra in una notte insonne. Così l’indagine non è solo quella che ricerca la verità su una donna morta, ma sulla stessa protagonista, di cui sappiamo tutto e nulla. Jenny non ha bisogno di dire altro allo spettatore se non quello che è sulla scena: non importa chi sia stata prima, ora è un medico e in quanto tale ha messo se stessa al servizio del bene degli altri. Proprio quando viene a mancare questo aiuto, non professionale, ma etico, umano, Jenny è ossessionata da questa ragazza sconosciuta. Ed è la stessa ossessione che i Dardenne, con la loro macchina da presa da inseguimento, cercano di trasmettere allo spettatore. Laddove vige il silenzio (dei pochi dialoghi del film e dell’omertà dei personaggi a cui Jenny chiede informazioni), i nostri pensieri dovrebbero riempire la scena. Ma il grande problema del film è quello di essere fin troppo legato al personaggio di Jenny, e specialmente al suo senso di colpa che è l’unico pilastro su cui si regge l’intera storia. La narrazione è ridondante e si ripiega continuamente su se stessa senza donare nuovi respiri e nuove vie di lettura. Se è vero che la pellicola potrebbe ben riassumersi nella frase che richiama I Fratelli Karamazov, “siamo tutti colpevoli, ma io di più”, tuttavia i Dardenne lanciano troppi sassi nascondendo la mano: come si sviluppa il rapporto col suo tirocinante Julien (Olivier Bonnaud), che viene rimproverato proprio da Jenny per non essere abbastanza emotivamente distante dai casi, quando proprio lei non riuscirà a mantenere una buona distanza intellettuale rispetto alla ragazza senza nome? Che fine fanno i pazienti che la chiamano al telefono attendendo una visita e di cui poi non sapremo più nulla? Come continueranno le indagini della polizia?
Il tema della responsabilità, specialmente dal particolare punto di vista del non agire, è un terreno solido dove porre le proprie fondamenta, ma non se non ce ne sono altri ad aiutare nell’arduo compito. I temi cari ai Dardenne, le loro cifre stilistiche, i loro elementi poetici, come il disagio sociale, l’immigrazione, la disoccupazione, vengono clamorosamente appena accennati, togliendo forza espressiva a tutta la pellicola.
Lento e riflessivo, composto e umile, il film lascia sia l’amaro in bocca per non aver fatto meglio, sia la speranza per un’umanità che tende, fisicamente o moralmente, ad aprire ancora la porta a qualcuno.
La ragazza senza nome: la recensione in anteprima (no spoiler)
Di Elena Pisa
Il nuovo film dei fratelli Dardenne racconta con il loro tipico linguaggio asciutto la vicenda di una dottoressa vittima del rimpianto.