(questa recensione contiene spoiler)
C’è qualcosa che rende il terzo episodio di Black Mirror, Shut up and Dance, diverso da tutti gli altri della terza stagione: è l’unico infatti in cui la narrazione non è pervasa da elementi di fantascienza o di ipertecnologia come invece accade nelle altre cinque puntate. Non ci sono futuri distopici, multinazionali dell’hi-tech o società tecnocratiche, ma un presente fin troppo reale per ambientazione, dinamiche sociali e riferimenti all’attualità. Eppure questo approccio non contribuisce a rendere l’episodio meno inquietante di altri, anzi. Proprio per la sua immanenza nel mondo che viviamo ogni giorno e senza più proiezioni apocalittiche legate al progresso tecnologico, Shut up and Dance (il titolo riprende una canzone dei Walk on the moon) emerge forse come il frammento più preoccupante ed allarmante dell’intera stagione, qualcosa che ci parla non più delle conseguenze della tecnologia sull’uomo, ma di quelle dell’uomo sulla tecnologia.
Gli scheletri (digitali) nascosti nell’armadio
La storia è quella di un ragazzo di 19 anni, Kenny (Alex Lawther), timido ed introverso con una vita apparentemente normale divisa fra il lavoro in un ristorante e la quotidianità in famiglia. La narrazione si apre con un ragazzo normale, normalissimo, anche nella sua pulsione tardo-adolescenziale di lasciarsi andare, al chiuso della sua cameretta, ad atti di auto-erotismo di fronte al suo laptop. Fin qui tutto bene, pensiamo, sennonché il dispositivo di Kenny è stato precedente infettato da un virus chiamato Shrive (ovvero “confessione”) e tutto quello che ha compiuto davanti alla sua webcam è stato ripreso e registrato da un gruppo di hacker. “O fai quello che ti diciamo o diffondiamo il video ai tuoi contatti”: l’apparente normalità per Kenny si trasforma in un dramma e, continuamente in contatto testuale via telefono con i misteriosi estorsori, si vedrà costretto a seguire i loro ordini, scoprendo ben presto di essere solo una pedina in uno scacchiere dove si muovono altre persone ricattate, altri “peccatori” caduti nella rete del virus, altri disperati disposti a tutto pur di salvaguardare la loro privacy e gli scheletri (digitali) che nascondono nell’armadio.
Fra thriller e attualità
Un’architettura narrativa dunque che utilizza i riferimenti all’attualità (pensiamo solo al recentissimo caso italiano di Tiziana Cantone) e che viaggia sui ritmi in crescendo di un vero e proprio thriller. James Thomas Watkins che dirige l’episodio (e che va ricordato anche per essere stato il regista di Eden Lake, bellissimo e sottovalutatissimo horror del 2008) sposta l’asticella della tensione sempre più in avanti man mano che l’esasperato tentativo di Kenny di eseguire ogni capriccio dei suoi cyber-ricattatori viene messo alla prova. Sulla propria strada Kenny incontrerà altri compagni di sventura come il padre di famiglia Hector interpretato da Jerome Flynn (il Bronn di Games of Thrones), colpevole quest’ultimo di essersi lasciato andare di nascosto a scappatelle virtuali. I temi che si respira in Shut up and Dance sono dunque quelli che leggiamo ogni giorno sui giornali: dal controllo della nostra privacy e di tutte le nostre azioni compiute online alla realtà del cyberbullismo e a quella del digital divide che ci interroga sul divario fra chi padroneggia la tecnologia e chi invece la subisce ingenuamente. Fin qui non benissimo pensiamo, ma possiamo ancora farcela. Sennonché l’epilogo che ci offre la sceneggiatura scritta da Charlie Brooker e William Bridges complica ulteriormente le cose, sgombra il terreno da facili alibi e ci sferra il colpo di grazia.
L’epilogo che fa davvero male
È solo nelle scene finali accompagnate da Exit Music (For a Film) dei Radiohead che cambia inaspettatamente la nostra prospettiva su Kenny, con cui abbiamo empatizzato per tutta la visione, non è meno innocente di altri e il suo “peccato digitale” si rivela molto più indigesto di quello che pensavamo. Mentre la “trollface” inviata via messaggio beffa ogni personaggio ricattato dall’ignoto e sadico gruppo di hacker, assistiamo ad una svolta nichilista che non ci lascia nessuna via di fuga e nessuna morale consolatoria. Non ci sono vittime o carnefici in Shut up and Dance, ognuno ha solo diversi gradi di colpevolezza e di complicità e gli stessi ricattatori e ricattati si pongono quasi allo stesso livello di nefandezza morale ed etica. Questo terzo episodio di Black Mirror è l’unico che ci dice in modo tanto esplicito quanto spietato come non esista una tecnologia buona e una cattiva. La tecnologia è solo il palcoscenico dove si muovono le inguaribili fragilità degli esseri umani e i loro errori (ed orrori) in carne ed ossa. E questo ci colpisce allo stomaco più di ogni altra cosa: perché da noi stessi, in fin dei conti, nessuno ci può salvare.