Niente di nuovo sul fronte: Men Against Fire, il quinto episodio di questa terza stagione di Black Mirror, non riesce a sorprenderci. Jakob Verbruggen, il regista belga che ha già avuto esperienza in casa Netflix dirigendo l’ultimo episodio della quarta stagione di House of Cards, ci invita attraverso il linguaggio del war movie in una distopica realtà aumentata, in un mondo percepito in modo fortemente distorto.
Stripe (Malachi Kirby, che abbiamo conosciuto in Doctor Who) è un giovane soldato; vive in un mondo che, a seguito di una non meglio precisata guerra, lotta contro i parassiti, individui antropomorfi portatori di una malattia sconosciuta. Come in uno sparatutto, Stripe e i suoi colleghi dell’esercito devono scovare e sterminare queste creature dal sangue infetto per evitare che il virus continui a diffondersi.
Non c’è bisogno di metterci troppa fantasia per scoprire quale sarà il twist dell’episodio, soprattutto considerando che si tratta di una puntata di Black Mirror. Si aspetta, più con pazienza che con curiosità, la rivelazione dell’inghippo tecnologico che ha portato Stripe e l’umanità fino a quel punto. Poi l’inghippo arriva, e se non è esattamente quello che ci aspettavamo gli somiglia parecchio.
A onor del vero forse Charlie Brooker ci ha provato ad ingannarci: in un paio di scene spunta fuori un dispositivo elettronico esteticamente molto simile al cacciavite sonico del Doctor Who, mentre in altri momenti sembra quasi di essere in un prequel di The Walking Dead (Black Mirror potrebbe aver risolto meglio di Fear The Walking Dead il problema delle origini del morbo, ma non ditelo a Kirkman).
Il grigiore della guerra di Stripe è sottolineato dalla fotografia, che predilige una luce fredda nel presente ma che si fa invece più calda e rassicurante nei sogni (e nei ricordi). In questo mondo grigio e desaturato i soldati non riescono a stabilire alcuna comunicazione con i parassiti che, pur senza essere cannibali, ricordano gli zombie del già citato Kirkman, con la differenza che queste creature sono senzienti, combattono, scappano e sanno imbracciare delle armi.
Lo showrunner si cimenta nel genere come quegli studenti che sono bravi ma non si impegnano, infilando qui e là un paio di cliché da guerra (le difficoltà linguistiche – e la necessità di interpreti – e il sesso come ricompensa per i servizi svolti sul campo dai soldati).
Se però distogliamo lo sguardo dalla messa in scena e lo puntiamo su un livello più concettuale ecco che Black Mirror torna ad essere, anche con questa puntata, una serie scomoda. Lo spunto di scrittura infatti sembra essere una domanda semplicissima: cosa può fare la tecnologia per i soldati del (prossimo) futuro? La risposta che si cerca di dare con Men Against Fire è “niente che non si sia già visto”, ma questo non significa che Brooker manchi di fantasia. Al contrario, la sua fantasia è quella di polemizzare con la realtà, mostrandoci come il progresso tecnologico non corrisponda al progresso dell’umanità, un’umanità che non è in grado di liberarsi dalle solite paure, dai soliti pregiudizi e dalla solita violenza.
Lo spiegone finale è come un abito a taglia unica: va bene per tutti i conflitti – reali – che ci vengono in mente e, probabilmente, anche per quelli che non ricordiamo, per quelli che ignoriamo, per quelli che non siamo stati ancora capaci di cogliere.
Questo quinto capitolo della terza stagione di Black Mirror è, probabilmente, quello meno accattivante. Forse la tematica era ambiziosa e non è stata sviluppata a dovere, o forse lo era troppo poco, e il risultato è solo uno stanco déjà vu.
O magari il problema è ancora più a monte: che sei puntate siano troppe?
Black Mirror 3×05 – Men Against Fire: la recensione (no spoiler)
Il quinto episodio della serie è un war drama distopico che pone al centro dell'attenzione, in maniera non del tutto soddisfacente, importanti temi etici.