Atmosfere rarefatte, tempi dilatati, sguardi che in silenzio scrutano l’orizzonte dalle rive del fiume Boaina che separa il Montenegro dall’Albania e sfocia nel mare adriatico: Vetar, presentato in concorso al 34° Torino Film Festival è il coming-of age che non ti aspetti, anomalo ed alieno, lontanissimo dagli stereotipi del genere ma che racchiude allo stesso tempo una capacità magnetica di farsi guardare e farsi esplorare.
Apatie esistenziali
Al centro della storia c’è Mina (Tamara Stajić), una sedicenne in vacanza sul Boiana insieme al padre Andrej (Eroll Bilibani) che si ritrova sospesa dentro un’apatia quasi esistenziale, fatta di tempi morti alternati a discussioni con il genitore, fra sociologia spicciola, insopportabili supponenze ed una totale alterità nei confronti di tutto ciò che la circonda. In questa sua villeggiatura pigra e letargica Mina si invaghisce senza ammetterlo di un giovane surfista (Darko Kastratović) a sua volta fidanzato con una bionda hippie sbarazzina (Tamara Pjević). Suo malgrado la giovanissima protagonista si ritroverà a gestire un’attrazione platonica affrontando la prima e amarissima delusione sentimentale della propria vita.
Raccontare per quadri
La serba Tamara Drakulic che dirige il film a Torino era già passata nel 2014 con Oekan, allora presentato nella sezione più sperimentale, Onde: una regista che arriva dal mondo dell’arte (Accademia di belle arti di Belgrado) ma anche da studi antropologici. Un mix che viene bene sintetizzato dalla narrazione visiva di Vetar, in cui sceglie di raccontare la vicenda per quadri statici: non c’è un solo movimento di macchina che anima le inquadrature mentre seguiamo la passività di Mina, come se la Drakulic abbia voluto materializzare la mancanza di dinamismo vitale nello stesso stile di ripresa. I primi piani sul volto della protagonista Tamara Stajić si alternano a panoramiche sul contesto circostante completamente spoglio, veri e propri dipinti en plein air che restituiscono sul grande schermo un territorio incontaminato e brulicante di una fauna quasi esotica, fra fenicotteri e cormorani.
Và dove ti porta il vento
Allo stile rigoroso di Vetar si aggiunge una dissonanza narrativa fra immagine e suoni: mentre la fotografia è algida, desaturata, lontanissima dall’immaginario colorato e solare dei “film al mare”, la colonna sonora viaggia spesso con giocosità grazie ad inserti di musica beat che ricordano i film sulle high-school americane. È un paesaggio che, come la protagonista, combatte con se stesso, mentre sullo sfondo è invece il vento – come da titolo – che fa fluttuare tutto ciò che non si muove nell’animo di Mina: da una parte è come fosse lo sbuffo annoiato di una ragazzina indolente, dall’altra è una folata di vita che vuole risolvere quel passaggio incompiuto fra infanzia e adolescenza, fra negazione della realtà e voglia di farne parte. Quando questo succederà, quando Mina proverà a seguire la corrente d’aria e la naturale inclinazione dell’esistenza, quello stesso vento le accarezzerà il viso mentre viaggia sopra uno scooter abbracciata al surfista (con la macchina da presa che per l’unica volta si muove precedendo i due ragazzi di qualche metro). Sarà il primo illusorio assaggio di vita che dovrà però fare i conti con ciò che comporta liberarsi dagli argini, come un fiume che sfocia nel mare. Di più, non diciamo.
Vetar in conclusione è un affresco di formazione dolceamaro, simbolico e fortemente dilatato. Invece di annoiare, il suo ritmo interiore non solo funziona, ma riesce a trasmettere in modo tanto sincero quanto totalmente anti convenzionale l’eterno conflitto adolescenziale fra la paura e la voglia di crescere. Un film da non sottovalutare, per nessun motivo.