Il Cinema è un’arte straordinaria. Ma c’è una cosa ancora più straordinaria ed è la capacità di chi volge lo sguardo nelle pieghe più profonde della vita e grazie al Cinema accende una luce su verità nascoste, quelle con cui ci si sporcano le mani e le coscienze. E’ il caso del regista cinese Wang Bing che in carriera ha in attivo un solo film di finzione e diversi documentari girati, come questo, senza cercare scorciatoie. Al TFF34 di Torino è arrivato, fuori concorso, il suo ultimo film dal titolo Ta’Ang.
Il popolo Ta’Ang è una piccola comunità etnica composta da circa 800mila persone che vive in Birmania in una striscia di terra al confine con la Cina, una comunità che periodicamente viene perseguitata dall’esercito. Nel 2015 il conflitto è stato così aspro da costringere gran parte dei Ta’Ang a percorrere sentieri impervi per rifugiarsi in Cina e sottrarsi alle violenze. In molti casi l’esodo ha diviso le famiglie ma c’è anche a chi è andata peggio: qualcuno non c’e la fatta e tanti altri hanno subito soprusi e torture. Wang Bing segue con la sua macchina da presa la loro fuga dall’Inferno. Si sofferma nei campi profughi improvvisati allestiti alla meno peggio in una sorta di inaccessibile “terra di nessuno”, sale su un camioncino insieme ad una famiglia che viaggia verso lidi più sicuri, segue il percorso insidioso e accidentato di alcune donne che, a piedi nudi e bambini in spalla, mentre tutto intorno risuona il rumore sinistro delle armi da fuoco dell’esercito birmano, cercano di raggiungere la terra promessa che si concretizza in una capanna con un tetto di rami e foglie. Ma nonostante tutto i Ta’Ang non sono una comunità di disperati. Sono scappati con le poche cose che hanno potuto racimolare ma non abdicano a sentirsi orgogliosamente un popolo. E come tale si comportano, mantenendo, anche lungo la strada della salvezza, le loro tradizioni, la loro cultura, le loro vocazioni agricole e per la cura del bestiame. Hanno i telefoni cellulari con i quali si mettono in contatto con chi è rimasto a casa per avere notizie sui loro cari e sulla situazione politica. Molti si fermeranno in Cina, tanti altri torneranno in Birmania quando la situazione si sarà placata.
Il regista cinese ci prende in spalla e ci fa viaggiare insieme a loro. Bing non commenta, non interviene mai e per nessun motivo all’interno delle loro storie. Rimane lontano per permettere allo spettatore di non perdersi una sola parola di dialoghi e racconti troppo duri per non stridere con la musicalità della lingua, di movimenti troppo naturali e determinati per pensare che siano frutto dell’istinto di sopravvivenza, del vociare festante, giocoso e scanzonato dei bambini come fossero al Luna park. Il suo non è un esodo ma il viaggio di un regista che non vuole mediare nulla di quello che riprende: due didascalie all’inizio per farci sapere chi sono e dove cercano di andare, e due didascalie alla fine per dirci le loro prospettive dal punto di arrivo in poi. Per far questo Wang Bing parte con due telecamere, un microfonista e un montatore, dopodiché passi lunghi e ben distesi.
Il resto spetta a chi guarderà il film. Che scoprirà situazioni sconosciute di persone che non hanno neanche la dignità di profughi, polemiche comprese. Ma anche immagini, sembra perfino brutto dirlo, fantastiche. Sia però chiaro: Ta’Ang è un film “provvisorio”, lento, faticoso da seguire. Faticosissimo. Diciamo anche che non sarà quasi certamente supportato dalla distribuzione e che perciò difficilmente lo si potrà vedere in sala. Ma se proprio volete cercarlo, magari in qualche rassegna, predisponetevi con il giusto spirito e con le giuste motivazioni, alcune delle quali le abbiamo accennate. Arrivare fino alla fine sarà una conquista e soprattutto un piacere e una crescita dal punto di vista cinematografico.
TFF34 – Ta’Ang: la recensione in anteprima
Il regista cinese Wang Bing racconta in una pellicola di difficile fruizione un angolo di mondo dimenticato.