Negli ultimi anni, con la diffusione di Internet e l’avvento dei social network, sembra essere nata una nuova categoria virtuale che abbraccia tutte le età e tutti i ceti sociali: stiamo parlando dei cosiddetti “leoni da tastiera”; questi soggetti, presi ultimamente di mira da Enrico Mentana (con il termine “webeti”) e da Maurizio Crozza (con il suo personaggio Napalm51), sono coloro che imperversano su Facebook e Twitter pontificando su qualsiasi argomento (politica, sport, gossip e chi più ne ha più ne metta) a suon di parolacce, insulti e addirittura minacce, anche di morte. E se queste persone potessero effettivamente decidere sulla vita e sulla morte degli individui? Questo è uno dei punti centrali di Hated in The Nation, ultimo episodio della nuova stagione di Black Mirror che, per la prima volta, utilizza il format del lungometraggio puro (l’episodio dura infatti la bellezza di 90 minuti).
Hated in The Nation ha l’impostazione classica del police drama.
In un mondo dove le api si sono estinte lasciando il posto a mini-droni capaci di tenere vivo l’ecosistema, l’ispettore capo della polizia britannica Karin Parke (Kelly Macdonald) indaga sullo strano omicidio della giornalista Jo Powers (Elizabeth Berrington), a cui seguiranno altre morti di personaggi più o meno famosi; nel corso di questi indagini l’ispettore, assieme alla giovane detective Blue (Faye Marsay) e grazie anche all’aiuto dei servizi speciali di polizia guidati dall’agente Shaun Li (Benedict Wong), scoprirà la triste verità: a commissionare gli omicidi sono in realtà le persone che frequentano i social network attraverso un hashtag che lascia poco all’immaginazione (#DeathTo).
Questo episodio riprende il discorso cominciato con Nosedive.
Non è un caso che lo showrunner Charlie Brooker abbia scelto due puntate come Nosedive e Hated In The Nation per aprire e chiudere il nuovo corso della serie targata Netflix: lo sappiamo tutti quanto ormai i social network facciano parte della quotidianità di ognuno di noi e quanto questi siano diventati, di fatto, lo “specchio nero” e deformato della società contemporanea, capace di influenzare (e, talvolta, distruggere) la vita delle persone (la notizia recente del suicidio di Tiziana Cantone, la donna divenuta involontariamente famosa per un video hard diffuso in rete, ha fatto molto riflettere nelle scorse settimane). Se in Nosedive è la costruzione dell’immagine pubblica ad essere il motore del plot, con la sua deriva conformistica e pericolosamente totalitaria, in Hated In The Nation invece il lietmotiv è l’odio (virtuale fino ad un certo punto) catalizzato in queste moderne valvole di sfogo 2.0 che rispondono al nome di Facebook e Twitter: James Hawes, esperto regista televisivo britannico che ha lavorato in Penny Dreadful e Doctor Who, mette in scena un thriller in puro stile Black Mirror (molto simile, nella realizzazione, a Shut Up And Dance) che si ispira molto alle atmosfere plumbee, cupe e soffocanti di alcune serie poliziesche scandinave come The Killing e Bron/Broen, mostrandoci un futuro non così lontano da noi dove la speranza sembra essere svanita del tutto e dove il cinismo e la cattiveria dominano incontrastate.
La critica di Brooker però è molto più ampia ed è legata alla nostra crescente (se non totale) dipendenza nei confronti della tecnologia.
Il cinema da sempre parla di queste tematiche: un autore importante come David Cronenberg, nel corso della sua ormai cinquantennale carriera, in alcuni dei suoi film ha costantemente legato la mutazione, anche fisica, dell’uomo al progresso tecnologico (come, per esempio, in Videodrome ed in ExistenZ); oggi però il grande schermo, escludendo alcuni registi, tratta molto più di rado questi argomenti scottanti e quindi tocca alla televisione di qualità, oasi molto più sperimentale, metterci di fronte a ciò che potrebbe essere davvero il nostro avvenire, molto più terrificante dei film di Cronenberg perché è molto più ancorato nella realtà. Charlie Brooker ci mette in guardia, usando l’espediente narrativo delle api-droni, da un mondo dove la vera natura è stata sostituita da robot multiuso (utilizzati anche per violare la privacy dei cittadini) che si “ribellano” ai loro creatori per punirli severamente, con un modus operandi quasi biblico, dai gravi errori commessi (se vogliamo, una versione aggiornata de Gli Uccelli di Alfred Hitchcock).
Ora però è tempo di fare un bilancio di questa stagione e la domanda che dobbiamo porci è una sola: Black Mirror ha risentito o no della cosiddetta “svolta americana”? Per Netflix è stata sicuramente una delle sfide più stimolanti della sua breve vita quella di portare nel tempio del binge-watching lo show che si presta meno a questo tipo di maratone ma la scommessa è stata vinta su tutti i fronti perché Brooker, con un budget sicuramente molto più consistente di quello di Channel4, ha dimostrato di non essere uno che si siede sugli allori riuscendo a rinnovare drasticamente la serie senza però snaturarne l’essenza (cosa per nulla semplice in partenza) e mantenendo intatta la qualità altissima che ha sempre contraddistinto il prodotto, sicuramente uno dei più importanti nella TV degli ultimi dieci anni.