La quarta stagione si pone come un unicum nella storia di Sherlock. Ogni episodio era stato amato in lungo e in largo, tanto dai fan di Sir Conan Doyle quanto da quelli che non hanno mai letto i romanzi, dalla prima alla terza stagione, senza soluzione di continuità. Invece per il gran finale c’è stato uno scisma, una profonda frattura fra chi ha continuato ad apprezzare il nostro caro Cumberbatch in versione “Junkie”, spiccatamente sentimentale e ottimo boxer e chi invece non ha riconosciuto negli ultimi episodi la freschezza e il grande ritmo delle prime stagioni. Questa, in ogni caso, è una cosa tutt’altro che negativa.
Sherlock è diventato un film. Gli showrunner Gatiss e Moffat hanno dato meno importanza alla trama verticale, affidandosi ad una costruzione tipicamente cinematografica che lega alla perfezione le tre puntate, funzionali l’una alla successiva. Lestrade e Molly vengono lasciati dietro le quinte e si presenta una Mrs. Hudson nuova, in veste di “linea comica” (come direbbero in Boris), guida l’Aston Martin e sfodera diverse battute che funzionano e ce la fanno adorare sempre di più.
Nonostante la farraginosa puntata iniziale, la più debole delle tre, la stagione si avvale di una regia precisa, una scrittura impeccabile e un montaggio squisitamente rapido. Cumberbatch e Freeman sono ormai diventati un corpo unico con gli eroi che interpretano, li adorano e questo, per lo spettatore, è una gioia continua. Sherlock, d’altronde, ha portato alla ribalta il primo e rilanciato il secondo…
(seguono spoiler)
La terza puntata comincia con le due più grandi sorprese di Sherlock. Mycroft racconta la travagliata storia di Eurus, la terza Holmes che è perfino più intelligente dei suoi fratelli, più arguta e con una capacità deduttiva migliore di quella di entrambi messi insieme, ma, come tutti i villain, la pone al servizio del male. Eurus è quello che, in termini videoludici, si definisce “boss finale”, l’ultimo scontro, quello per cui si è giocato tutto il gioco. La seconda rivelazione, forse più grande, vive nelle parole di Sherlock, in uno dei primi dialoghi della puntata: Mycroft chiede a Watson di uscire dalla stanza perché deve raccontare la storia della sorella lamentandosi con Sherlock sul fatto che si tratta di “una cosa familiare” , il quale, di tutto punto, risponde “È per questo che John deve restare”. Lo sapevamo ma ancora non glielo avevamo sentito dire davvero. Sherlock è diventato vittima delle emozioni. Non è più una macchina perfetta, può scricchiolare, come vogliono farci credere gli autori.
Si va a Sherrinford, un’isola simile alla “Masafuera” di Più lontano ancora di Franzen, alla quale non c’è possibilità di arrivare se non tramite elicottero. È la prigione degli “intrattenibili”, in cui viene tenuta prigioniera la terza Holmes. La trattengono in una prigione dentro la prigione, dalla quale scappare dovrebbe essere impossibile. Telecamere, sicurezza varia, vetri e avvertimenti anticipano il dialogo tra Sherlock e sua sorella, la vera comandante della prigione.
Eurus è nulla meno di un supereroe o meglio di un supercattivo. Tramite la parola controlla le menti e le piega al proprio volere, come Tennant in Jessica Jones ma senza superpoteri, solo tramite la dialettica. Ciò che infatti affascina di più in The Final Problem è la gara dialettica tra gli Holmes, nell’espressione del male di Eurus, del bene e del narcisismo di Sherlock e nel pugno duro che da subito Mycroft assume con l’inadempiente direttore della prigione.
Gli Holmes sono finalmente al completo, una Justice League mista con buoni e cattivi, dove il vero piacere è l’aura superomistica dei tre fratelli. Potrebbero spodestare la regina se volessero, eppure questo episodio racconta una volta di più il livore e le rivalità fra di loro (solo alla fine si riappacificheranno).
Il collante è Watson, colui che riconosce il primato a Holmes ed afferma convinto che loro sono “soldati” al servizio di una ragazzina e di un aereo che precipita da salvare. Eurus li mette alla prova, sfidando Sherlock sul piano emotivo, senza che lui scricchioli. Egli rimane un personaggio meravigliosamente ed eternamente dubbio. Si punta la pistola addosso per vincere, regge perfettamente la pressione quando si presenta il doppio problema finale con Watson e l’aereo, convince Molly senza cedere e quasi sembra impermeabile alle conseguenze del suo gesto. Sherlock vince perché è perfetto.
Il finale scommette tutto sulle emozioni e non si prodiga di spiegare e concludere con precisione; non ci dice niente di Victor, non ci fa vedere dove fosse Mycroft e soprattutto non si dilunga a sufficienza sull’incubo dell’aereo di Eurus o sulle ripercussioni della telefonata di Sherlock a Molly. L’intreccio resta perfetto, la suspense anche, ma la pochezza di spiegazioni finali, forse, detronizza il grande tessuto narrativo che Moffat e Gatiss avevano cucito per il finale della stagione.
Sherlock, nonostante alcune voci su una possibile quinta stagione, sembra davvero arrivato alla sua naturale conclusione. Cumberbatch e Freeman sono stelle mondiali e adesso sarà davvero difficile rimetterle insieme per un nuovo ciclo di episodi. Poco da aggiungere, ci mancheranno.