“Se potete, non leggete questa recensione…” direbbe Lemony Snicket. Nonostante le sue numerose raccomandazioni alla fine abbiamo deciso di guardare Una serie di sfortunati eventi, approdata nel catalogo italiano nel più sfortunato dei giorni del calendario: venerdì 13 gennaio. La serie è tratta dai romanzi di Daniel Handler, a cui nel 2004 è seguito un film di Brad Silberling (già regista di Casper). Nel (sottovalutato, o sfortunato) film già si era esibito un cast di tutto rispetto: Jim Carrey nei panni del Conte Olaf, Billy Connolly e Timothy Spall rispettivamente nei ruoli di zio Monty e Mr Poe, mentre una straordinaria (o come direbbe Trump sopravvalutata) Meryl Streep interpretava la (super fifona) zia Josephine.
La serie Netflix vede, ovviamente, un cast rinnovato: Neil Patrick Harris veste i costumi di scena del Conte Olaf, e lo fa davvero bene, regalandoci anche una convincente corsa sui tacchi a spillo, ma le sorprese più grandi sono state, negli ultimi due episodi della serie, Catherine O’Hara (la mamma di Kevin in Mamma ho perso l’aereo) e Don Johnson (Miami Vice).
LA STORIA
La storia, in breve, ruota attorno alle avventure – o meglio, disavventure – degli sfortunati ragazzi Baudelaire, che nel giro di un paio di scene, restano orfani e nullatenenti, a seguito di un terribile incendio che uccide i loro genitori e riduce in cenere la loro agiata dimora. Agiata perché i Baudelaire sono ricchi, anzi ricchissimi, ed è sulla loro cospicua eredità che il malvagio Conte Olaf vuole mettere le sue perfide manacce. Con ogni riprovevole mezzo possibile.
UN BINGE-WATCHING DIFFICILE
È doveroso un ulteriore confronto con il film che ha preceduto la serie: nel 2004 lo script che ha portato i romanzi di Handler al cinema era tratto dai primi tre libri della saga, mentre la serie, nelle ultime due puntate, mette in scena anche il quarto capitolo.
Questo genere di suddivisione non porta in maniera naturale al binge-watching (come invece fanno la maggior parte delle altre serie Netflix) perché alla conclusione di ogni romanzo corrisponde la conclusione della seconda, della quarta, della sesta e dell’ultima puntata. Una breve pausa nel racconto che lo spettatore avverte, e che rende la serie quasi una somma di quattro film, in cui ogni puntata svolge alternativamente il ruolo di primo e di secondo tempo.
LE NOVITÀ
Per chi aveva già visto il film la novità principale sta nel plot degli ultimi due episodi e la presenza sullo schermo di Patrick Warburton, che interpreta il narratore degli sfortunati eventi in cui i Baudelaire sono coinvolti: Lemony Snicket.
Un Lemony Snicket grottescamente divertente, non più una semplice cornice come nel 2004 ma un personaggio a tutti gli effetti, un narratore che molto spesso congela le scene per intervenire nel racconto con delle improbabili dediche alla sua defunta amata e una serie di infauste precisazioni sugli sfortunati eventi, dalla spiegazione della differenza tra letterale e figurato a degli esempi calzanti sull’ironia drammatica. Un aspetto divertente della figura di Snicket è il suo continuo cambio d’abiti, spesso perfettamente appropriati al contesto in cui la sua figura irrompe: cambia più mise lui che una valletta di Sanremo, per intenderci. In chiusura della serie è ancora Snicket a sorprenderci, lanciando uno dei twist che dovrebbe traghettarci nei capitoli successivi della saga. Un’altra novità, anche per i lettori dei romanzi di Handler, è il mistero sui genitori Baudelaire che nei libri è sì presente, ma in maniera più blanda. La sceneggiatura (guidata in writers’ room dallo stesso Handler) apporta alcuni cambiamenti, ma non sappiamo ancora se saranno sufficienti a convincere il pubblico storico.
I DIFETTI
Non può passare inosservato il fatto che i tre giovani e sfortunati protagonisti, gli orfani Baudelaire (Violet, Klaus e la piccola Sunny, interpretati rispettivamente da Malina Weissman, Louis Hynes e Presley Smith), vengano offuscati dal perfido Conte Olaf. Non c’è una vera e propria spettacolarizzazione delle abilità dei bambini, che vengono date un po’ per scontate, come se sapessimo tutti di cosa si sta parlando. Inoltre la scelta del cast sembra più una nostalgica fotocopia del cast del film (Malina Weissman è sorprendentemente simile a Emily Browning, la Violet del 2004, ad esempio).
LA REGIA, LA FOTOGRAFIA E LA COLONNA SONORA
In questa prima stagione di otto episodi sono tre i registi che si passano il testimone: Barry Sonnenfeld (La famiglia Addams, Man in Black), Mark Palansky (assistente alla regia di grandi produzioni come Armageddon e Pearl Harbor) e Bo Welch (che ha lavorato come production designer accanto a Tim Burton in Edward mani di forbice). Un po’ Tim Burton e un po’ Wes Anderson, con costumi e atmosfere steampunk che non guastano mai, la regia mostra il piacere per la simmetria e, più in generale, per la costruzione geometrica delle inquadrature: è evidente che tutto è studiato nei minimi dettagli per bilanciare (o sbilanciare) lo sguardo dello spettatore.
La fotografia compie perfettamente il proprio dovere, sottolineando l’atmosfera dark con colori così freddi e desaturati da sembrare, in alcuni momenti, il risultato di una scala di grigi. Così come la colonna sonora, che si plasma attorno alle scene e che ci regala una (quasi) novità: la sigla sempre diversa, con una piccola review cantata della puntata precedente o delle anticipazioni di quella che si sta per guardare. Una cosa simile l’avevamo già vista in BrainDead, ed era molto divertente.
LE CITAZIONI
Se vi piacciono le citazioni qui c’è pane per i vostri denti, la sfida è trovarle tutte.
Innanzitutto il cognome degli sventurati orfani. Charles Baudelaire, il poeta, ha avuto vita breve e tormentata, segnata per altro dal dolore per la prematura scomparsa del padre. Un caso?
Non mancano tra gli altri Melville, Tito Puente, Murakami, Murnau e Samuel Beckett, per nominarne alcuni.
GLI SFORTUNATI EVENTI
Gli eventi sono davvero sfortunati, e gli argomenti trattati sono profondamente tragici: dalla perdita dei genitori allo sfruttamento del lavoro minorile, passando per la piaga delle spose bambine. La modalità di racconto è così sincera e spietata da valicare il confine della tragicità e trasformare la storia degli orfani Baudelaire in una commedia nera che, però, si radica nel territorio del racconto per ragazzi, con un approccio decisamente più leggero rispetto a qualsiasi fiaba dei fratelli Grimm (o a Stranger Things, se vogliamo). Le parole che i personaggi si scambiano tra loro sono dirette e terribili, non c’è nessun filtro diplomatico, nessuna pillola indorata, nessuno sforzo di smussare la tragica realtà: i Baudelaire non sono fratelli, ma orfani; i loro genitori non sono venuti a mancare, sono morti carbonizzati…
In definitiva, si tratta di un prodotto ben fatto, forse troppo simile stilisticamente al film che lo ha preceduto, e di sicuro diretto a un pubblico di giovanissimi. Le ultime scene sono insieme la conclusione di un piccolo ciclo e il primo passo verso la seconda stagione che, a detta di David Handler, è già in preparazione.