C’è ben poco erotismo ma piuttosto tanta riflessione sociologica in Hide and Seek, l’esordio alla regia di Joanna Coates presentato in anteprima italiana nel concorso del Fish&Chips Film Festival di Torino. Vincitore del Premio Michael Powell nella categoria Miglior Film Britannico al Festival di Edimburgo del 2014, l’opera prima della Coates è un indie britannico delicato e ambizioso, che si interroga in modo decisamente nuovo sulla convenzionalità dei rapporti sociali, delle relazioni sentimentali e – di riflesso – sulla sessualità imprigionata dalla monogamia.
Una comune a quattro
Leah (Rea Mole), Max (Josh O’Connor), Charlotte (Hannah Arterton) e Jack (Daniel Metz, anche co-sceneggiatore e produttore del film) decidono di sperimentare un nuovo tipo di socialità isolata, rifugiandosi in un casolare di campagna e dando vita ad una sorta di comune a quattro: la sfida è quella di restituire alle loro esistenze un senso che sentivano di aver perduto. Poche regole (fra cui la condivisione di coppia, a turno, della camera principale) che si intrecciano con una quotidianità fatta di torpore e frugalità, interrotta solo da una serie di performance artistiche autorganizzate nella sala del casolare. Quando un elemento estraneo, l’ex fidanzato di Charlotte (Joe Banks), irromperà nella vita della comune per rivendicare il suo ruolo di “convenzione sociale” minacciandone l’autonomia, i quattro giovani faranno scudo all microcosmo affettivo che condividono insieme e in cui si sono immersi ormai totalmente.
La realtà simulata
Lo sguardo di Coates si sofferma sui piccoli dettagli dei primi piani, sui momenti di silenzio e sui dialoghi spezzati per esplorare i profili psicologici dei protagonisti e le loro reazioni alla loro personalissima fuga dal mondo. Un patto sociale nuovo, che da un disorientamento e da una tensione iniziale riesce ad affermarsi e a coinvolgere i quattro ragazzi anche in una complicità sessuale che – contro tutti i cliché della situazione – non è mai primitiva ed animalesca quanto piuttosto eterea e giocosa. La realtà di fuori, quella fatta di riti sociali (fidanzamenti, matrimoni e funerali) è solamente recitata: nelle sua semplice evocazione viene vissuta quasi come fosse uno spettacolo teatrale, come un immaginario posticcio e simulato che quindi non può più far male e rendere prigionieri. Perfino il senso della morte e il suo significato può essere sconfitto perché “morire tutti insieme” diventa un orizzonte collettivo meno traumatico e più accettabile rispetto alla fine individuale della propria esistenza.
Fra utopia e corporeità
“La possibilità di un’isola”, come recita una poesia di Michel Houellebecq, una dimensione dominata da un “amore in cui tutto è facile / in cui tutto è dato nell’attimo” in Hide and Seek si materializza dolcemente: quello della Coates è un film a tutti gli effetti sospeso ed utopico ma che allo stesso tempo vuole caricarsi di corporeità e di verità. Se da una parte un dito viene puntato su una giovane generazione che ha perso la bussola nella società in cui vive, l’altro indica una via d’uscita per riconsegnare al sentimento un ruolo centrale nei rapporti fra le persone, edulcorando tutto il resto. In questo senso l’unico difetto in questo esordio filmico (comunque freschissimo) è che la sua sbirciata chimerica appare forse fin troppo positiva e autoindulgente, quasi fiabesca. Ma è una favola in cui – alla fine – ci piace farci cullare.