Entrando in sala a vedere Il viaggio di Fanny abbiamo l’impressione di ritrovarci davanti all’appuntamento annuale con la Giornata della Memoria: una pellicola/pillola cinematografica che ha come compito principe quello di non far scivolare verso l’oblio uno dei momenti più bui della storia moderna.
Il film racconta la storia vera della tredicenne Fanny Ben-Ami e delle sue sorelle, lasciate dai genitori in una delle colonie francesi destinate a proteggere i minori dalla guerra. A causa dei rastrellamenti nazisti, Fanny e tutti i bambini della colonia saranno costretti alla fuga.
La necessità di essere un medicinale “salva memoria” rende molto spesso le pellicole sull’Olocausto particolarmente piatte e lontane dall’obiettivo che si pongono. La trama e le atmosfere hanno tutte le carte in regola per costituire il titolo perfetto per la giornata al cinema delle scuole, eppure proprio questo genere di storie nascondono un pericoloso rischio. Il viaggio di Fanny, soprattutto in un pubblico giovane, susciterà un semplice sentimento di compassione, che prenderà il posto di una più importante e agognata riflessione che la scuola e il cinema dovrebbero invece auspicare. La pellicola è infatti incastrata nella trappola dei buoni sentimenti: bambini, tanti (troppi) violini, flashback patinati, lunghissime corse, e singhiozzi dalla prima all’ultima scena. Inoltre, la narrazione è talmente frastagliata da sembrare infinita, in un vero e proprio zig zag continuo del gruppo dei protagonisti verso il confine svizzero.
Come tanti film prima di lui, Il viaggio di Fanny vuole mostrarci una strage attraverso gli occhi dei bambini: il pericolo diventa un lupo cattivo e la paura, che invade gli animi degli adulti, viene sconfitta in gruppo scoprendo il valore dell’amicizia e dell’altruismo. Quest’aspetto, seppur interessante, rimane molto formale e poco approfondito; la stessa sorte coinvolge i pochi personaggi adulti, sia positivi che negativi, tutti a malapena accennati. L’elegante Cécile De France dà il suo contributo attoriale mostrando una delle tante figure storiche che hanno permesso di salvare milioni di vite, ma a livello cinematografico rimarrà poco impressa.
Nel suo essere estremamente canonico, ai limiti del didascalico (sovraimpressioni a inizio film), la pellicola ha l’aspetto di una lezione di storia spiegata da una professoressa poco appassionata della sua materia. Al cinema servirebbe riconsiderare l’Olocausto e con esso i suoi racconti e la maniera più adatta per narrarli. È giusto far vedere film come La vita è bella e Il bambino con il pigiama a righe, ma quanti dibattiti susciterebbe in una classe del liceo un film provocatorio ma toccante come The Last Laugh, documentario che si chiede se sia giusto o meno ridere dell’Olocausto?
Come la nonna che ripete al nipote di mangiare più pesce, così Il viaggio di Fanny non avrà un impatto decisivo sulla vostra memoria. Né storica né tantomeno cinematografica.
Il Viaggio di Fanny: la recensione in anteprima
In occasione della Giornata della Memoria arriva in sala una pellicola che racconta timidamente l'orrore nazista dal punto di vista di un gruppo di bambine.