C’era una volta M. Night Shyamalan. Forse i più giovani tra i nostri lettori non se lo ricorderanno, ma ai tempi di The Sixth Sense – Il Sesto Senso (1999), l’innamoramento di critica e pubblico per questo giovane regista statunitense di origine indiane fu tanto folgorante da consegnarlo dal nulla a una straordinaria reputazione e popolarità: la sua capacità di gestire la suspence come non accadeva da anni e di manipolare lo spettatore guidandolo verso un coup de théâtre da manuale avevano fatto gridare al miracolo, tanto che alcuni si erano spinti (con uno slancio di entusiasmo a dir poco iperbolico) a definirlo ‘il nuovo Hitchcock’. A quel folgorante thriller paranormale erano seguite pellicole non meno interessanti: dalla rivoluzionaria rilettura del supereroismo di Unbreakable – Il Predestinato (2000) – che dopo tre lustri e passa di cinecomic sembra ancora più innovativo e potente – all’originale racconto di un’invasione aliena di Signs (2002), passando per la parabola simbolica sull’America post-11 settembre di The Village (2004). Una serie di lavori capaci di accompagnare a un’elegantissima riproposizione di tematiche proprie dell’horror temi profondi come la percezione del sé, l’archetipo, la fede e il trauma.
Shyamalan era diventato sinonimo di un certo thriller d’autore imbastito sulla tensione e i colpi di scena, uno dei registi più rappresentativi della sua generazione, e sembrava che non potesse sbagliare un colpo. Ma, colpo di scena, la sua carriera ebbe un crollo improvviso.
Nel 2006 arrivò Lady In The Water, un pasticciato fantasy che aprì un periodo di crollo creativo apparentemente inarrestabile, che portò quell’elegante autore indipendente a puntare – con esiti disastrosi – su pellicole ad alto budget e imbarazzo, come L’Ultimo Dominatore dell’Aria (2010) e After Earth (2013). Dopo un decennio di delusioni ininterrotte, quando la sua carriera sembrava ormai irrecuperabile, fu The Visit (2015) a stupire per il ritrovato talento, anche se rimanevano molti dubbi sul futuro del cineasta di Mahe. Stava quindi a Split, la sua nuova pellicola con James McAvoy, confermare la rinascita dell’autore che ci aveva folgorato quasi un ventennio fa, o al contrario deludere le rinnovate aspettative verso quello che una volta era considerato il nuovo ‘maestro della tensione’.
Split fa tirare un sospiro di sollievo ai vecchi fan di Shyamalan: quel regista che tanto avevamo amato è tornato, e ora porta nelle sale un lavoro magnificamente scritto, girato e interpretato.
Come ai vecchi tempi, risulta quasi impossibile parlare della trama di un suo film senza rovinare l’esperienza, pertanto accontentatevi della più asciutta delle sinossi: tre ragazze (tra le quali la bravissima Anya Taylor-Joy di The Witch) vengono rapite da un giovane uomo (James McAvoy) i cui intenti sono tutt’altro che chiari, ma che presto si rivelerà affetto da un disturbo dissociativo dell’identità. A causa della gravità della patologia del loro aguzzino, le cui personalità multiple sono in conflitto tra di loro, presto le vittime capiranno di avere non uno ma molti carcerieri e che l’unica speranza per fuggire è imparare a conoscere ognuno di essi.
La regia di Shyamalan torna a tenerci incollati alla poltrona, mentre lo script, da lui imbastito su un soggetto di disarmante semplicità, denota una rara complessità. A differenza dei suoi primi lavori non c’è un messaggio particolarmente profondo, ma la molteplicità dei piani narrativi colloca il film su un piano incredibilmente più alto rispetto alla maggior parte dei thriller degli ultimi anni. Sospeso come sempre tra tensione e orrore, il regista si avvale della calda fotografia del Mike Gioulakis di It Follows, capace di rendere interessanti spazi a dir poco angusti, e del perfetto montaggio di Luke Franco Ciarrocchi, già montatore di The Visit e qui efficacissimo nel contribuire alla costruzione del ritmo in una pellicola tutt’altro che facile da confezionare.
Anya Taylor-Joy ha il talento e la bellezza per diventare una star di cui sentiremo molto parlare, ma il vero mattatore del film è un James McAvoy mai così bravo. L’attore infatti riesce nella difficile impresa di non cedere a toni gigioneschi e anzi si cala nei panni di identità di ogni sesso, età e psicologia sempre in modo estremamente credibile, arrivando in taluni momenti a un ‘effetto Droste’ semplicemente straordinario e diventando la vera anima (o dovremmo parlare di ‘anime’?) della storia.
In conclusione Shyamalan crea un racconto originale, con sviluppi imprevisti e che sfrutta al meglio tutti quegli elementi che ce l’hanno fatto amare. Non vi diremo altro, ma sappiate che, se avete apprezzato i suoi vecchi film, appena usciti dalla sala non vedrete l’ora di seguire i futuri sviluppi della sua carriera.