“I giovani, tra qualche tempo, guarderanno più pellicole che leggere libri”. Ad affermare ciò era un profetico Luigi Pirandello che, all’inizio del ‘900, aveva previsto l’enorme impatto socio-culturale della settima arte. La regista francese Léa Fehner utilizza il cinema per guardare a un’altra arte (il teatro) e alla sua infanzia nel suo secondo film, Les Ogres, vincitore del premio del pubblico al Festival di Rotterdam e alla Mostra del nuovo cinema di Pesaro.
La Davai Theatre è una compagnia di teatro itinerante in cui la vita reale e quella sul palcoscenico sono quasi indistinguibili; tutti gli attori si spostano di città in città, con roulotte e tende, crescendo l’uno affianco dell’altro. Loro sono gli orchi (les ogres) che portano in scena L’orso, atto unico scritto da Cechov nel 1888: sul palco un uomo burbero pretende i suoi soldi da una giovane vedova mentre, fuori dal teatro, il ritorno di un’amante e l’arrivo di un bambino porteranno grande scompiglio in questa tribù di artisti.
La regista, cresciuta a stretto contatto fin da bambina con il teatro viaggiante, riesce a trasmettere tutte le sfumature che possono influenzare un ambiente così sfaccettato rispetto al teatro tradizionale (“Non siamo in un circo qui!” tiene a precisare il personaggio di François). La pellicola non possiede un carattere uniforme, né nello stile né tantomeno nella narrazione, e questo non è un male di per sé: è un film estremamente gioioso e festaiolo, efficace ma taccagno con la comicità, e incredibilmente duro in molti momenti. Si nota a occhio nudo la forte (e pericolosa) carica autobiografica che la regista riesce a dosare al meglio grazie ad accostamenti di tematiche legate tanto alla quotidianità quanto all’arte.
Sullo schermo abbiamo modo di osservare tante esistenze diverse accanto all’eterno racconto del rapporto tra vita e arte; quest’ultimo aspetto è reso ancora più radicale dalla scelta di questi uomini di vivere in completa simbiosi con il teatro, annullando se stessi per immergersi in quello che per loro è il tutto e senza il quale non sarebbero nulla. Essere artisti come necessità stessa della natura umana è il tema toccato ma non sufficientemente sfruttato dalla pellicola; probabilmente, le storie presenti possedevano le basi per creare delle riflessioni molto simili al magnifico Venere in Pelliccia di Roman Polanski, ma sul punto di focalizzarsi sull’arte, l’attaccamento alla storia e ai personaggi ha preso il sopravvento.
Les Ogres ha il pregio di essere un elegante e chiassoso racconto collettivo/generazionale in cui ogni gruppo o fascia di età si scontra inevitabilmente con i desideri altrui. È un film che parla di famiglia e forse per questo la Fehner ha compiuto l’audace scelta di utilizzare i suoi parenti come parte del cast principale. Nonostante questo, la famiglia di cui parla il film è qualcosa che va ben oltre i legami di sangue: questi artisti, così eccessivi nei modi ma incredibilmente empatici, proclamano l’amore nel senso più alto possibile. Un bambino nato in questa tana degli orchi non avrà un solo padre e una sola madre ma molti.
Léa Fehner, utilizzando il cinema, ha voluto filmare uomini e donne che hanno deciso di abolire il confine tra teatro e vita; il suo coinvolgimento emotivo nelle situazioni raccontate l’ha portata a privilegiare le gioie e soprattutto i dolori rispetto all’interessante mostruosità artistica dei suoi personaggi.
Les Ogres – la recensione in anteprima (no spoiler)
Con il suo secondo lungometraggio, la regista Léa Fehner ci racconta le mille facce del teatro itinerante che ha accompagnato la sua infanzia.