Che Moonlight sarebbe stato in corsa per gli Oscar lo avevamo già previsto mesi fa, quando Antonio Monda ebbe la brillante intuizione di scegliere la pellicola di Barry Jenkins per aprire l’11a edizione della Festa del Cinema di Roma. Eppure, a ben vedere, non sarebbe potuta andare diversamente, dato che Moonlight è un capolavoro di quelli rari e preziosi, in cui l’intensità di un messaggio artistico incontra una realizzazione superlativa da ogni punto di vista.
Una pellicola che vi colpirà dritto al cuore pur senza ricorrere ad alcuna retorica.
Moonlight è una storia fortemente radicata nella comunità nera (lo straordinario cast è interamente afroamericano, anche nei ruoli più secondari) e segue tre diversi momenti della vita del protagonista: quando tutti lo soprannominano Little ed è un bambino introverso che trova in uno sconosciuto gentile una figura paterna; quando si fa chiamare col suo nome, Chiron, ed è un adolescente che prova ad accettare la propria omosessualità e infine quando, col soprannome di Black, è un adulto che ostenta una forza e una prepotenza che non gli appartengono.
Una sorta di Boyhood incentrato sui temi dell’individualità e delle minoranze multiple, dell’accettazione di sé e della gentilezza.
Il tema affrontato è molto sentito in America ma ancora piuttosto inesplorato in Italia, ed è quello delle minoranze multiple, ovvero della compresenza in uno stesso soggetto di più di un fattore di discriminazione: in questo caso l’apparenza all’etnia afroamericana e l’omosessualità. Una condizione che porta a subire atteggiamenti discriminatori anche all’interno della propria comunità di appartenenza e che nella pellicola diventa pretesto per ragionare sulla fragilità dell’individualità al cospetto del contesto sociale. Il vero fulcro dello script infatti non è tanto la sessualità del protagonista, quanto la difficoltà dell’essere fedeli a se stessi, alle proprie aspirazioni e al proprio io profondo, nonché la facilità con cui la società può portarci in direzioni lontane da quelle che seguiremmo in un mondo ideale.
Uno sguardo registico non invasivo per una realizzazione impeccabile.
Moonlight ha un linguaggio visivo che rispecchia il carattere del protagonista: non si concede, si lascia osservare ma non si muove mai verso l’osservatore, non fa mai il primo passo e se lo fa è per dissimulare. L’incedere della narrazione è molto lento ma la macchina narrativa funziona alla perfezione, e lo sguardo mai esterno di Jenkins, che ci trascina a forza nell’interiorità dei personaggi con una calda macchina a mano e inquadrature sempre ravvicinatissime, non giudica e non prende posizione.
Le emozioni contano più dei sentimenti in questo universo narrativo e, nonostante la sconfortante presenza di una continua violenza fisica e psicologica con cui è bersagliato il protagonista, il peso più importante è quello dell’edificante amore gratuito, che sia di uno sconosciuto, di un amico o di un amante. Jenkins regala scene iconiche e simboliche come quella che nel primo capitolo del film racconta l’incontro di Little con l’oceano: una sorta di battesimo e di rinascita che una meravigliosa inquadratura a pelo d’acqua ci regala in tutta la sua intensità.
Anche il comparto sonoro è però di grande efficacia e mentre vi è un uso analogico del volume in più di una scena, la colonna sonora ci avvince con atmosfere alla Malick andando nella direzione parallela ma opposta a quell’Hamilton di Lin-Manuel Miranda che ha sconvolto Broadway diventando un vero caso in America: qui anziché trovare un commento musicale hip hop su un contesto d’epoca, troviamo la musica classica in una storia ambientata nel ghetto.
Le performance del cast sono tra le più memorabili degli ultimi anni.
Uno dei più straordinari meriti del film è quello di presentare interpreti di indiscutibile talento che riescono a portare in scena una complessità fuori del comune con una naturalezza disarmante. Le interpretazioni sono tutte più che degne di nota, ma quelle che brillano di più sono quelle del misurato Trevante Rhodes, che riesce in una missione impossibile di armonizzazione degli opposti, di André Holland (The Knick), inequivocabile pur senza mai essere gigionesco, di una credibilissima Naomie Harris (la saga di 007, quella di Pirati dei Caraibi, ma anche 20 giorni dopo) e, soprattutto, di un insuperabile Mahershala Ali (House of Cards, Luke Cage, Hunger Games – Il Canto della Rivolta e Il Diritto di Contare), che brilla di un incontenibile talento che scommettiamo gli garantirà la statuetta come miglior attore non protagonista agli Academy.
In conclusione Moonlight è una pellicola assolutamente imperdibile, che con grande merito dello script riesce a non scadere mai nella banalità, rischio sono sempre in agguato quando si trattano tematiche tanto sensibili. Poco meno di due ore per lasciarci con una domanda: quel che siamo oggi cancella quel che siamo stati?