Il cinema di Paul Verhoeven ci ha abituati da sempre a un bilateralità narrativa unica nel suo genere. Da una parte un immaginario prodotto per essere masticato, ingerito e digerito dalle masse, destinato a diventare icona, cult, mainstream. Dall’altra quella di tracciare dentro queste stesse narrazioni delle riflessioni inequivocabilmente sociali e sociologiche, affreschi politicamente scorretti, al limite della satira, se non sociale, sicuramente umana. Robocop, Atto di Forza, Basic Instinct, Showgirls, Starship Troopers: anche nelle sue opere più evocative e visionarie, la realtà (raccontata o immaginata) è frutto di tensioni psicologiche ed emotive, un crocevia di pulsioni e di ossessioni. In definitiva, un conflitto mai risolto e forse irrisolvibile. Questa stessa ambivalenza veicolata dal conflitto è rintracciabile in Elle, che segna il ritorno del regista olandese dietro alla macchina da presa dopo dieci anni di inattività, in una produzione europea come non succedeva dai tempi di Black Book.
Il centro del labirinto
Michèle (Isabelle Huppert), donna in carriera e founder di una casa di produzione di videogames, subisce improvvisamente uno stupro. Una violenza sessuale sofferta e assimilata nel silenzio della propria casa, mentre il suo gatto osserva smaliziato e sornione la violazione del corpo della sua padrona. Michèle, che ha già subìto traumi psicologici e fisici in passato a causa del suo essere la figlia di un serial-killer di bambini, reagisce però allo stupro in modo non convenzionale, evitando di segnalarlo alla polizia e iniziando una personalissima indagine per scoprire il colpevole verso il quale inizierà a provare una morbosa ossessione. Nel frattempo intorno a lei esplodono e implodono gli intrecci umani e sentimentali che attraversano il microcosmo della sua vita: dal rapporto con la vecchia madre libertina (Judith Magre), al quello con il figlio (Jonas Bloquet) che è succube della sua giovane compagna (Alice Isaaz); dal legame con il suo ex-marito (Charles Berling) a quello con il suo amante (Christian Berkel), a suo volta sposato con la sua migliore amica e collega (Anne Consigny). Fino al riesumazione del ricordo mai veramente archiviato del padre stragista in carcere. Un intreccio labirintico di conflitti psicologici ed emozionali appunto, una forza centripeta di psicosi mai risolte che convergono tutte al centro, dove c’è lei (elle), Michèle.
Come in un quadro di Bosch
Verhoeven affronta la complessa architettura narrativa ispirata da un libro di Philippe Djian e adattata da David Birke con una capacità incredibile di cambiare i toni della messa in scena, sfumando il tutto in un mix godibilissimo tra thriller psicologico, giallo e revenge-movie. Ma lo fa soprattutto aggiungendo ovunque un tocco irresistibile di ironia che fa emergere Elle come una raffinata e tagliente dark-comedy, capace di scherzare su temi pesantissimi, scomodi ed oscuri. È uno squarcio di realtà trasfigurata attraverso pulsioni maligne, ovunque la si guardi: misoginia, speculazioni finanziarie, ipocrisie cattoliche, vizi borghesi, voyeurismo, deviazioni sessuali. Grandi e piccoli peccati capitali di una società che divora se stessa. Eppure, l’approccio (tutto fiammingo) di Verhoeven pare riprendere le caratteristiche morali ed ironiche dei quadri di Hieronymus Bosch: la miseria umana e i conflitti dell’uomo sono rappresentati sfiorando il grottesco, con un distacco lucido e freddo di chi (come quel gatto delle prime scene) osserva un groviglio di deformazioni psicologiche e anti-naturali. Come Bosch anche Verhoeven riesce a disseminare realismo trasfigurato dal vizio, come Bosch (e come attraverso i videogames violenti prodotti da Michelè) Verhoeven evoca un male immateriale e dinamico che domina i rapporti sociali fra gli esseri umani e dove il tentativo della protagonista di dominare la sua paura diventa l’occasione di trasformare il male subito in qualcosa di più sottile e beffardo.
Interpretata splendidamente da una Huppert capace di esprimere l’ambiguità della protagonista con la stessa freddezza deviata della pianista di Haneke, Elle è una pellicola stratificata e potente, un esercizio di cinema a metà fra Hitchcock e Bunel. Ma è anche l’ultima provocazione di un grande maestro capace di trasformare materia comune e quotidiana in un’indagine sul crudelissimo teatro in cui si muove, senza via d’uscita, l’essere umano.