Al 69esimo Festival di Cannes dove fu presentato in concorso Loving aveva spiazzato completamente critica e pubblico. Dall’altra parte Jeff Nichols ci aveva abituato, fin dal suo esordio con Take Shelter, a una serie di opere disturbate e cupissime, compreso il suo lavoro più ambizioso e mainstream come Midnight Special nel quale affrontava il genere sci-fi e mostrava peraltro di saper padroneggiare benissimo un budget di 18 milioni di dollari. Con Loving il giovane regista dell’Arkansas apre un nuovo capitolo, misurandosi nel racconto civile ed evitando ogni traiettoria border-line. Quasi a fare un parallelo, Loving per Jeff Nichols appare a prima vista quello che Una storia vera fu per David Lynch, ovvero un episodio filmico a sé nella propria narrativa autoriale. Ma analizzandolo più in profondità forse non è proprio così.
La vicenda dei coniugi Loving
La storia narrata da Loving è stranota: nel 1958 Richard e Mildred Jeter Loving vengono accusati dal tribunale della Contea di King and Queen in Virginia per aver contratto un matrimonio pur essendo due persone di razza diversa. Richard era infatti bianco, Mildred, nera. I due si innamorano, decidono di sposarsi a Washington (dove il matrimonio interrazziale è permesso) e tornano in Virginia per vivere insieme. Dopo arresti, esili forzati e un’odissea giudiziaria durata quasi 10 anni i coniugi Loving trovarono due avvocati che, vista fallire la richiesta di far cadere le accuse nei loro confronti nella corte dello Stato della Virginia, si appellarono alla Corte Federale e portarono infine la causa alla Corte Suprema. Nel 1967 proprio la Corte Suprema dichiarò anticostituzionale la legge segregazionista della Virginia e la causa Loving v. Virginia cambiò per sempre la storia degli Stati Uniti: grazie a quella sentenza fu sospesa la proibizione dei matrimoni interrazziali in tutto il paese.
Fra sentimento e denuncia civile
La storia dei coniugi Loving offre dunque tutto l’armamentario del caso per imbastire un cinema smaccatamente civile e militante. Ma Jeff Nichols compie l’operazione opposta: prova a rileggere la vicenda da una prospettiva intima ed antiepica, tanto che Richard (Joel Edgerton) e Mildred (Ruth Negga, che per questa parte ha ricevuto una candidatura agli Oscar) sono narrati con delicatezza e distacco, quasi con timore di una deriva spettacolare. Nichols si concentra sulla storia d’amore e in tutto il film la realtà sociale statunitense degli anni ‘60 con sue tensioni razziali ne rimane quasi totalmente fuori, evocata soltanto per scandire l’incedere cronologico della vicenda. E anche quando il “mondo” entra nella quotidianità dei Loving (come succede quando il fotografo di Life, interpretato da Michael Shannon, bussa alla loro porta) lo fa con dolcezza e in punta di piedi. Capiamo insomma di trovarci di fronte a un ribaltamento dei codici del cinema civile, a una consapevole analisi sociale senza società, a un film di denuncia in cui per la prima volta la storia non è al servizio del regista ma in cui il regista si mette al servizio della storia, raccontandola dal basso, senza filtri ideologici e in tutta la sua purezza originaria.
Fra diritto civile e diritto di amare
Da questo approccio emerge perfino un cortocircuito tra l’epica e la realtà: perché in fondo Richard e Mildred Loving non sono stati altro che due sottoproletari del tutto inconsapevoli (almeno in parte) dell’importanza della loro battaglia politica. Nichols questo lo sottolinea più volte, mostrandoli come dei corpi anomali che vivono la propria vicenda in modo sospeso, senza mai offrire un climax nel percorso di “lotta”, ma soffermandosi invece sul disorientamento che i due finiscono per subire quando sono trascinanti dentro un iter giudiziario che cambierà per sempre le sorti della storia. Se infatti da una parte Mildred (e qui è bravissima Ruth Negga) pare ambiguamente rimanere affascinata dall’inevitabile attenzione dei Media sulla vicenda sua e del marito, Richard continuerà invece ad essere presentato come il tipico redneck, ottuso e impenetrabile allo sviluppo di una vera e propria coscienza politica, un sempliciotto che riduce un diritto civile in un più naturale diritto di amare.
Il cinema della fuga
Ed è forse qui che si può disegnare una sottilissima linea di continuità fra Loving e la poetica di Nichols. Se infatti i suoi film precedenti sono caratterizzati da soggetti alieni e alienati che non trovano una sintonia con il mondo che li circonda, anche qua il regista fa riferimento ad una fuga totale dalle strutture precostituite – siano essere segregazioniste o liberali – e racconta il tentativo di una coppia (che in realtà è un corpo unico, con la testa di Mildred e i muscoli di Richard) a costruirsi il proprio personalissimo microuniverso, mattone su mattone, contro ogni appartenenza alla storiografia ufficiale. Il “cinema della fuga” di Nichols pare quindi trovare una chiusa positiva, forse perché l’entità soprannaturale che spesso fa capolino nella sua filmografia in Loving si materializza e si mostra in carne ed ossa nelle politiche razziste e segregazioniste: un male finalmente individuabile, reale e tangibile.
Con tutti questi presupposti (che indirettamente ammiccano anche all’attuale svolta trumpiana degli USA) Loving, al contrario delle sue timide sembianze, emerge come un film potentissimo che ha (ed avrà, ne siamo certi, in futuro) molto da dire. Ingiustamente già archiviato come un’opera minore di Nichols, al contrario ha tutte le carte in regola per diventare uno dei lavori più significativi della sua intera cinematografia.