Diciassette anni sono un tempo cinematografico quasi interminabile: ci sono star che hanno avuto carriere decisamente più brevi. Se poi pensiamo che c’è qualcuno che ha incarnato per più di tre lustri lo stesso personaggio, riuscendo per giunta a non esserne fagocitato e anzi a mantenere una propria individualità e reputazione, allora sfioriamo il miracolo. Parliamo ovviamente di Hugh Jackman, che quando vestì per la prima volta i panni del mutante Wolverine nel primo X-Men di Bryan Singer era pressoché uno sconosciuto. Di acqua sotto i ponti, da quel cine-comic un po’ pionieristico (il primo a cimentarsi in quella narrazione corale di cui oggi non possiamo fare a meno) e un po’ naïf, ne è passata tanta, e rivedere oggi quel giovane Wolverine col capello cotonato e il sopracciglio alla Zoolander suscita un’ilarità allora insospettabile. Quel sex symbol phonato e impostato non aveva nulla a che fare con l’immaginario del personaggio originale, da sempre tormentato, basso, tozzo, rude e ferino; col passare degli anni e l’avvicendarsi dei film però qualcosa è cambiato e ci si è sempre più avvicinati ai toni drammatici che hanno caratterizzato le migliori pagine del fumetto Marvel.
Logan, chiudendo un percorso, rappresenta l’antitesi di quel primo X-Men e ne sovverte ogni aspetto. È così che ci regala uno dei migliori cine-comic di sempre.
Il nuovo film sul canadese con gli artigli, Logan – The Wolverine, si muove infatti sul solco del già ottimo Wolverine – L’Immortale (con cui non a caso condivide il regista James Mangold e due sceneggiatori) e rispetto alla succitata prima incursione di Singer nel mondo dei mutanti gioca a sovvertire ogni regola: Logan è vecchio, imbruttito e vulnerabile; la coralità è soppiantata da una solitudine amara, le tutine di pelle da abiti sporchi e laceri, i puliti corridoi della scuola di Xavier da atmosfere post-apocalittiche e i toni speranzosi di quei giovani combattivi dalla disillusione di un uomo che si trascina nei suoi ultimi anni, segnato da cicatrici visibili e – soprattutto – invisibili.
Il risultato è un film sorprendente, con una sceneggiatura e delle interpretazioni di primissimo livello.
James Mangold (la cui eterogenea filmografia comprende pellicole come Quando l’amore brucia l’anima, Ragazze interrotte, Quel treno per Yuma, Kate & Leopold e Cop Land) ci consegna un lavoro che – prima che subentrino sviluppi opinabili, di cui parleremo più avanti – sembra troppo bello per essere vero, e ne firma anche lo script a sei mani insieme a Scott Frank (Minority Report) e Michael Green (colpevole di Green Lantern ma anche autore del prossimo Blade Runner 2049 di Villeneuve). In un futuro prossimo, un Logan barbuto e pieno di acciacchi fa da badante a un Professor Xavier ormai affetto da ‘demenza senile’ (con tutte le implicazioni che questo può avere per il più potente telepate del mondo), finché un giorno non incrocia il suo cammino Laura, una ragazzina in fuga che ha il suo stesso carattere e degli artigli di adamantio.
Miracolo: si può fare cinema d’autore anche con un cinecomic. O almeno si potrebbe.
L’inizio, con uomini soli e ‘speciali’ (c’è anche il mutante Calibano) che si prendono cura l’uno dell’altro, innalza da subito la posta emotiva, offrendo un contesto incredibilmente più interessante rispetto forse a qualsiasi altro cine-comic (Marvel e non). Siamo nel campo del cinema d’autore. L’entrata in scena della giovane Laura, poi, viene magnificamente sfruttata per raccontarci per contrasto il protagonista. La pellicola diventa così un road movie e ci porta in una direzione che ricorda moltissimo Un mondo perfetto di Clint Eastwood e Léon di Luc Besson. Senza considerare che, finalmente e coerentemente col personaggio, viene mostrata una violenza cruda ed esplicita.
Quando però ci si illude che il film sia perfetto, il solito ‘villain problem’ affossa colpevolmente il finale.
Lo script sembrerebbe perfetto, le atmosfere crepuscolari e la regia inappuntabili e le interpretazioni da Oscar (in particolare Patrick Stewart offre una performance indimenticabile), ma poi, quando nessuno se le aspetterebbe, arrivano le pessime conseguenze di una domanda fondamentale: chi può essere l’ultimo antagonista di Logan? Chi può affrontare Wolverine in quello che Hugh Jackman ha detto con certezza essere il suo ultimo film nei panni del mutante con gli artigli?
Non saremo certo noi a dirvelo, dato che non ci piace rovinare l’esperienza cinematografica dei nostri lettori, ma quel che – senza alcuno spoiler – possiamo dirvi è che si tratta di un cattivo volutamente senza alcuna emozione o motivazione reale. Una ‘macchina’ programmata per uccidere che, per la sua stessa natura, non riesce a costruire alcun climax emotivo nella resa dei conti finale, trasformandola in una ‘scazzottata’ da cine-comic lontanissima dalla ricchezza emotiva che ha accompagnato tutto il film. Nonostante il finale suggerito lungo la prima parte della pellicola avrebbe rappresentato un epilogo amaro e perfetto, si opta per una sterzata decisa che – nonostante abbia sfumature simboliche interessanti – di fatto sembra una scelta forzata operata per assecondare lo Studio, così come forzato è l’inutile ritorno finale di Logan alla pur iconica basetta. Così una scelta narrativa che in altri film avrebbe funzionato benissimo, qui – proprio per la grandezza della pellicola – trascina il tutto verso un piano meno ambizioso, troppo convenzionale e decisamente rivisto.
Detto questo, Logan rimane uno straordinario esempio di come ormai anche l’epica moderna dei supereroi possa ambire a commuovere e far pensare, come il cinema più nobile; resta un finale pressoché perfetto per il personaggio incarnato da Hugh Jackman e, ci auguriamo, diventerà una lezione di cinema imprescindibile con cui dovrà confrontarsi in futuro chi vorrà girare un film supereroistico.