Fin dal suo esordio nel 1996, Ferzan Ozpetek è sempre stato considerato il regista delle due patrie: Istanbul e Roma, due luoghi e due realtà che si amalgamano perfettamente nei suoi film. La città natale è al centro delle sue prime pellicole (Il bagno turco, Harem Suare) e dell’undicesimo titolo, Rosso Istanbul, liberamente tratto dal suo romanzo omonimo.
Dopo un’assenza di vent’anni (gli stessi che separano Rosso Istanbul da Il bagno turco), Orahan Sahin torna a Istanbul in veste di editor per lo scrittore Deniz Soysal che lo accoglie nella sua casa. In questo modo, Orhan avrà la possibilità di conoscere amici e familiari di Deniz che sono anche i protagonisti dell’opera letteraria. Partito per cercare di aiutare a finire il libro di un altro, Orhan si ritroverà a riscoprire se stesso, sentimenti che credeva morti per sempre e a fare i conti con un rimosso che aveva sepolto nella città.
Il film soffre di una strana patologia, quella del troppo amore.
Anche nel cinema, come nella vita, tornare a casa dopo un lungo periodo di assenza scatena emozioni complesse e contrastanti ed è qualcosa da maneggiare con cautela.
Ozpetek continua a raccontare il rapporto tra Occidente e Oriente mostrandoci una città completamente inedita: se la sua opera prima era un elegante canto del cigno di un mondo e di una cultura che era destinata a scomparire, ora le cose sono definitivamente cambiate. Istanbul è una metropoli fatta di grattacieli moderni, luci al neon e feste mondane; nonostante l’appiattimento della cultura dominante, il regista ci invita a girare l’angolo per trovarsi nelle strette strade o in un piccolo negozio e ritrovare così la sua Istanbul.
L’escamotage narrativo costruisce un interessante rapporto tra libro e film: la pellicola non parte dal libro ma parla della realizzazione di quest’ultimo.
In questa modo, si riesce a rendere omaggio a un’opera separandola dalla sua seconda vita filmica; è un vero peccato che la sceneggiatura di Gianni Romoli, Valia Santella e Ferzan Ozpetek, in gran parte originale, non abbia dato maggiore rilievo a questa struttura. Il racconto vede l’incontro di tante (troppe) proiezioni di Ozpetek, in una serie di doppi che si susseguono per un autore mai così invadente che si è lasciato trasportare dai sentimenti, destabilizzando tutto il resto Nella prima mezzora, la pellicola ricorda positivamente La finestra di fronte: un mistero con sfumature noir, sentimenti mai vissuti, persone che attendono o guardano indietro sono gli ingredienti fondamentali per il melodramma firmato Ozpetek.
Allora cosa è andato storto? Ci sono le grandi tavolate alla Ferzan Ozpetek, luogo d’incontro dei personaggi, amori impossibili, famiglie variopinte, eppure i personaggi di Rosso Istanbul non catturano mai fino in fondo. In questa città in continua evoluzione, i protagonisti rimangono inermi, quasi apatici, e anche quando urlano (come il poco sfruttato personaggio di Yusuf) non riescono a rivelarci chiaramente una psicologia. Il focus su Orhan (un impeccabile Halit Ergenc, attore molto famoso in Turchia) non ha fatto bene a una pellicola che si circonda di personaggi secondari che rimangono poco più che macchiette (esempio chiarificatore è la famiglia di Deniz). A livello di sceneggiatura, veniamo catturati da un mistero dai tratti instabili che porta con sé troppe riflessioni inframmezzate da fastidiose frasi d’effetto.
Più che le parole, di Rosso Istanbul ricorderemo gli sguardi, centrali fin dal poster, ai quali Ozpetek ha da sempre dato grande importanza: dagli occhi azzurri di Orhan scorgiamo una nuova Istanbul, un percorso autoriale ben preciso e un coinvolgimento emotivo immenso. A volte anche il troppo amore può far male a un film …