Alla 73a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, lo scorso settembre, alcuni attribuirono la tiepida accoglienza ricevuta da La Luce Sugli Oceani di Derek Cianfrance alla difficoltà di reggere il confronto con alcuni dei capolavori in concorso, La La Land in primis. In realtà, rivista a distanza di mesi, la pellicola risulta ancora debole e imperfetta, e pare proprio regista di film rari e delicati come Blue Valentine e Come un Tuono stavolta abbia fatto un passo falso.
Infatti, nonostante la materia si presti benissimo alla sua poetica – tesa a scandagliare l’amore e le relazioni familiari nei loro tratti più intimi – gli elementi messi sul piatto sono probabilmente troppi per chi è abituato a lavorare su scala più ridotta. Il paesaggio del film, le conseguenze della guerra su entrambi i protagonisti e una storia d’amore che si spinge oltre i confini morali sono tutti elementi che concorrono a costruire una trama tanto ambiziosa quanto difficile da imbrigliare.
Tom Sherbourne (Michael Fassbender) è un ex soldato che ha combattuto la prima guerra mondiale e che ora, troppo ferito dal genere umano, anela alla solitudine proponendosi per il lavoro di guardiano del faro sull’isola australiana Janus Rock, poco lontana dalle coste della città di Partageuse. Qui incontrerà la giovane e esuberante Isabel (Alicia Vikander), con la quale sboccerà presto l’amore, il matrimonio, e così il tentativo di fare figli. Dopo due aborti spontanei, che hanno fortemente leso la vitalità di Isabel, giunge sulle rive di Janus Rock una barca a remi, all’interno della quale la coppia troverà il cadavere di un uomo e una bambina di circa due mesi, affamata e stanca di piangere, ma fortunatamente ancora in vita. Proprio su quelle coste i due sposi decideranno di seppellire degnamente l’uomo e di tenere la bambina facendo credere che sia loro. Quando Tom verrà a conoscenza dell’esistenza di Hannah Roennfeldt (Rachel Weisz), la vera madre della “sua” Lucy, la sua coscienza inizierà a bussare più forte che mai, e sarà diviso tra l’amore per la moglie e la cosa giusta da fare.
Assai fedele al romanzo originale scritto da M.L. Stedman, pubblicato nel 2012, il film di Cianfrance cerca di trasporre in immagini la stessa solitudine che i personaggi vivono nel loro intimo. Così le lunghe inquadrature sui tramonti, le riprese dall’alto delle onde maestose che si avvicinano alla riva, gli sguardi ampi sui prati dell’isola sono la cifra stilistica che appartiene alla prima parte della pellicola. E non è un caso, ovviamente, che l’autore del libro abbia voluto ambientare la storia su un isola che porta il nome del dio romano Giano, caratterizzato dai suoi due volti che guardano in direzioni non solo diverse, ma del tutto opposte. Così sono Tom e Isabel: il primo, ligio al dovere, vuole segnalare l’arrivo della barca e il ritrovamento della bambina, la seconda, ferita dalla vita che le ha tolto i due fratelli caduti in guerra e ben due figli nati morti, troppo desiderosa di diventare madre farà di tutto per esserlo. Il problema del film è aver gestito male tutto il contorno. Se è vero che a un certo punto a quelle inquadrature lunghissime iniziano a contrapporsi primi e primissimi piani, intenti a segnalare una solitudine non più condivisa, il film inizia ad aggiungere il melodramma alla lentezza e flemma con cui si è immediatamente affacciato al pubblico. Il tono melenso ha tolto completamente vita alla trama, e così come la fotografia di Adam Arkapaw desatura i colori per la maggior parte della durata, lunghissima, del film, così la regia di Cianfrance stanca lo sguardo.
Il regista non sembra essere riuscito a gestire tutti gli elementi a sua disposizione: gli orrori della guerra che hanno fatto di Tom l’uomo che è, la relazione con Isabel che non sembra nulla di più di una storia d’amore vecchio stampo e senza grandissimi slanci passionali, l’interpretazione stessa degli attori. Alicia Vikander è da subito troppo melensa, poco naturale, piena di espressioni sofferenti e stucchevoli. Se il secondo aborto può, nella maniera più comprensibile, distruggere lo slancio vitale di una donna, il primo non può essere, almeno sullo schermo cinematografico, così tragico. Fassbender da parte sua fa il suo meglio, pagando le colpe di una regia assente. La sua recitazione, che è sempre una pentola sul fuoco, il cui coperchio sta per esplodere da un momento all’altro, è stavolta troppo contenuta: alterna pose ferme con un tramonto sullo sfondo a scene drammatiche dalla recitazione sincera e profonda. La scena in cui, dopo aver deciso di tenere la trovatella, sarà costretto a togliere la lapide del secondo figlio morto, è molto più potente di quella dell’aborto, come anche le sua voce è molto più naturale in tutta la sua disperazione a confronto di quella di una sofferente Vikander che sta per perdere un bambino.
Rachel Weisz è molto più intensa di entrambi, tanto da rubare l’attenzione alla storia d’amore dei due protagonisti: la storia dal suo punto di vista è molto più interessante, non perché sia una madre derubata della propria figlia, non perché Tom e Isabel siano punibili, ma perché il suo desiderio di perdonare è molto più potente della ricerca di redenzione di lui (per la guerra? Per l’uomo morto nella barca? Per Lucy?) e del desiderio di maternità di lei.
La luce del faro di questo film, purtroppo, non prende vita e non fa altro che disorientare lo spettatore, la cui attenzione si infrange come onde sugli scogli e l’emozione che lascia è arenata come una barca spoglia, che ha raggiunto la riva troppo lentamente per poter condurre scintille con sé.
La Luce sugli Oceani: la recensione in anteprima del meló con Fassbender
Di Elena Pisa
Michael Fassbender, Alicia Vikander e Rachel Weisz sono i protagonisti di un melodramma che contrappone le ragioni dell'amore ai doveri morali.