È la morte in tutte le sue forme l’indiscussa protagonista di Autopsy (The Autopsy of Jane Doe), horror d’autore che abbraccia l’essenzialità e la freddezza dei thriller del Nord Europa con il linguaggio dei classici di genere.
Un corpo non identificato e un mistero da risolvere fanno di Autopsy, diretto dal regista norvegese André Øvredal, un film equilibrato giocato sull’alternanza di colpi di scena in un contesto che vede in primo piano il difficile rapporto tra padre e figlio. Ad interpretare i protagonisti due attori di spessore, Brian Cox ed Emile Hirsch, una coppia straordinaria, capace di rendere con realismo ed empatia una relazione conflittuale.
Tommy e Austin Tilden (Brian Cox ed Emile Hirsch), medico legale ed assistente di laboratorio gestiscono un obitorio di famiglia in una piccola cittadina della Virginia. Un lavoro come un altro che esercitano con dedizione, finché il pensiero di cambiare vita inizia a condizionare il trentenne Austin, certo di non voler più seguire le orme del padre. La calma apparente si interrompe quando lo sceriffo della contea consegna ai Tilden una Jane Doe, termine con il quale si indicano i cadaveri femminili senza identità. Il giovane corpo di Jane porta con sé un torvo mistero, che padre e figlio saranno tenuti a svelare, scovandone gli indizi attraverso l’autopsia. Come in un macabro gioco, indizio dopo indizio, scandagliando nei minimi dettagli il corpo di Jane i Tilden si ritroveranno ad affrontare scoperte inquietanti ma anche a scavare nel loro rapporto conflittuale, confrontandosi per arrivare alla risoluzione del caso.
Autopsy inserisce la componente psicologica come parte centrale della narrazione e il corpo di Jane Doe come espediente, capovolgendo la struttura narrativa del tipico horror di stampo americano.
Gli elementi più terrificanti, per intenderci i colpi di scena e la musica martellante che fanno sobbalzare durante la proiezione di un horror, sono accantonati a favore di una tensione costante, messa in risalto dall’ambientazione delle scene, quasi tutte girate in interno. Il norvegese Øvredal, alla sua prima esperienza in lingua inglese, reduce dal successo del mockumentary Trollhunter riesce nell’intento (voluto dalla produzione) di conferire al film un tocco europeo, insistendo sulla claustrofobia indotta dalla casa-obitorio, luogo già di per sé chiuso e inquietante e utilizzando colori freddi e agghiaccianti, dal ciano del corpo di Jane al verde bottiglia delle pareti.
Il regista concede alla pellicola un tocco vintage, utilizzando materiali e componenti d’arredo che faticheremmo a trovare nelle case e nei laboratori odierni, piccoli particolari che ricordano il tempo passato (dai lampadari alle porte dell’ascensore) che hanno l’intento di accostare visivamente la pellicola alla filmografia horror degli anni ottanta e novanta. Tuttavia la sceneggiatura di Richard Naing e Ian Goldberg risulta priva di slancio, nella ricerca della linearità tipica del giallo nordico e probabilmente per non “sporcare” il film con elementi accessori i due autori hanno dato troppa agilità alla trama.
La breve durata (86 minuti) e l’assenza di flashback portano Autopsy ad essere più vicino al linguaggio seriale che quello di un lungometraggio.
A dare pienezza alla pellicola sono le interpretazioni dei protagonisti: un grande Brian Cox (Braveheart, Troy, Frammenti di un omicidio) si immerge empaticamente nelle vesti di Tommy Tilden, uomo dedito completamente al suo lavoro che sembra dimenticare l’esistenza di un mondo dei vivi al di sopra del suo obitorio ed Emile Hirsch (Into the Wild, Alpha Dog, Lone Survivor) è altrettanto credibile nell’interpretazione del giovane Austin. Una coppia con una grande alchimia sullo schermo, capace di interpretare un modello padre-figlio realistico e senza fronzoli.
Autopsy riesce solo in alcuni punti ad entusiasmare, ma rimane comunque un buon film da vedere per l’ambientazione e l’interpretazione. L’operazione Nord è riuscita, ma la chiave del successo di un horror è anche il livello di adrenalina, troppo bassa per lasciare il segno.