Cosa ci rende umani? Cosa fa sì che si possa essere amati o odiati? Questi sono gli interrogativi che il regista Martijn Maria Smits si pone al suo secondo lungometraggio, a distanza di ben sei anni dal suo primo film di finzione, C’est déjà L’été, per cui ottenne una nomination al Tiger Award al Festival di Rotterdam.
Waldstille, partendo da una sinossi già ampiamente collaudata, poteva risultare uno di quei film drammatici ormai triti e ritriti dove sguardi languidi di attori in perenne stato lacrimale si alternano a lunghe carrellate di uomini solitari che camminano per vie notturne con birra e sigaretta alla mano. E invece con grande audacia e spirito innovatore, il regista olandese sceglie un soggetto classico di un dramma famigliare e lo decostruisce rimuovendo ogni traccia superflua di sequenze iperemotive o con inutili piagnistei. Il risultato è un film minimale, asciutto e molto personale.
Tutto ha inizio durante la festa di carnevale nel paese di Waldstille. Ben e Tinka sono due giovani genitori che affidano ai nonni la piccola Cindy per potersi godere appieno la notte di eccessi, tra alcol, droga e musica. Di ritorno a casa fanno però un brutto incidente e mentre lui finisce miracolosamente in ospedale, lei non riuscirà a salvarsi…
Da questo momento in poi comincerà per Ben un lungo calvario di redenzione per poter rivedere la figlia, affidata ai nonni materni dopo il tragico evento e restii nel consentire al padre il ben che minimo incontro. Dopo alcuni anni e grazie all’aiuto di Debbie, la sorella di Tinka, le cose sembreranno però cambiare.
Waldstille, dal nome del paese d’origine del regista, è un film che incede quasi pachidermico, con pochi guizzi narrativi, eppure capace di restituire allo spettatore tutto il disagio, tutta la tristezza e tutta la profonda inquietudine di un uomo che ha perso tutto. Un uomo che per un suo fatale errore ha dovuto rinunciare ad una vita serena, un quotidiano certo: ha dovuto rinunciare a se stesso e al proprio futuro.
Martin Maria Smits condisce il suo film con pochi ingredienti, riducendo all’essenziale ciò che in altre opere dello stesso genere appare spesso tronfio e stucchevole. Il vuoto esistenziale del protagonista si amalgama così all’inconsistenza della narrazione, con ellissi temporali e frasi non dette, accompagnate da lunghissimi silenzi a saturare un’ambiente già di per sé spettrale e sinistro. Le inquadrature, impoverite anch’esse, si compilano di campi lunghi e dettagli di piccoli gesti a rimarcare lo stato d’animo di un uomo a pezzi, mentre dai volti dei personaggi non traspare mai un’emozione di troppo; persi in sé stessi e monolitici e freddi a causa del doloroso evento.
Ciò che ne risulta può suggerire erroneamente un’incompletezza di fondo, forse persino una non riuscita dell’opera. Ma come accennato in precedenza, la scelta di procedere per vie trasversali, rinunciando agli stilemi tipici del dramma famigliare, è un’oculata decisione del regista, restio nell’indugiare sul lato emotivo. In questo senso diventa lo spettatore il soggetto chiamato in causa a colmarne le lacune, creandosi una propria storia attraverso i vuoti strutturali del film.
È innegabile però che a causa di questo incedere per sottrazione e contenimento, il terzo film in concorso al Bergamo Film Meeting risenta di un appesantimento eccessivo e fatichi a coinvolgere. Waldstille rimane un progetto sicuramente interessante, ma per le logiche del classico racconto cinematografico, forse poco fruibile e monotono. Non piacerà a tutti.
BFM35 – la recensione in anteprima di Waldstille
La terza pellicola in concorso al Bergamo Film Meeting è un lavoro di difficile fruizione sul dramma e la redenzione.