Dopo la vittoria del suo primo premio Oscar con La città incantata nel 2003, lo Studio Ghibli si è subito imposto in tutto il mondo come un punto di riferimento non solo per l’animazione, ma per il cinema stesso. Se cinefili più o meno celebri (tra questi, l’immenso Robert McKee) lodavano da anni i lavori dei maestri orientali dell’animazione, in particolare quelli di Miyazaki, quest’ultimi sono stati a lungo snobbati dalla grande critica; ma con quell’Oscar finalmente tutti dovettero ammetterne il valore, consacrando il Ghibli come sinonimo di bellezza, passione e pura arte cinematografica.
Il motto dello studio, “vivere per l’arte”, rappresenta pienamente quella scintilla che ha spinto i suoi animatori a sperimentare su ogni opera anche a costo di rischiare la bancarotta, ed è proprio sull’onda (parola non scelta a caso) di questo spirito artistico che quest’anno il Ghibli si è lanciato in uno dei suoi progetti più originali, La Tartaruga Rossa, film diretto dall’olandese Michaël Dudok de Wit (famoso per il premio Oscar ottenuto nel 2001 con il cortometraggio Father and Daughter).
Realizzato insieme alle case di produzione francesi Wild Bunch, Prima Linea, Why not Production e Arte France Cinéma, La Tortue Rouge è difatti la prima co-produzione dello Studio Ghibli. Quest’unione di artisti provenienti da tutto il mondo permette alla pellicola di manifestare una mescolanza di stili grafici e narrativi in grado di renderla un’opera unica nel suo genere. Se questo non bastasse a contraddistinguere il film, La Tartaruga Rossa, come probabile retaggio della sua natura multiculturale, sceglie di raccontare senza ricorrere alla parola, ma appoggiandosi solo alle immagini e creando una narrazione visiva pura e universale.
Come spesso accade nelle pellicole che prediligono un linguaggio strettamente visivo, la trama è estremamente semplice: un ragazzo naufraga su un’isola deserta su cui viene trattenuto da una tartaruga di colore rosso che, ad ogni suo tentativo di fuga, distrugge le imbarcazioni di fortuna del protagonista, impedendogli di scappare. Nonostante questa apparente semplicità, il film, attraverso l’uso di un linguaggio a tratti surreale, si fa carico di una storia che ripercorre metaforicamente le varie tappe della vita, dal suo inizio fino alla morte, e lo fa toccando temi quali la nascita, l’abbandono, il sogno, l’amore, la crescita e il valore dell’esistenza, solo per citarne alcuni.
Dovendo raccontare un così vasto pantheon emotivo solo tramite immagini, il team di artisti ed animatori (guidati da Jean Christophe Lie, famoso per aver lavorato a molte pellicole Disney) non poteva permettersi di sbagliare neanche un frame, cosa che li ha portati ad una costruzione meticolosa di ogni scena e ad uno stile grafico misto che permettesse di avere una vasta tavolozza cui attingere. Vediamo infatti un’ottima unione di animazioni 2D e 3D (al cui uso il Ghibli si è sempre mostrato restio) ed uno stile grafico semplice che consente la coesione ottimale delle due tecniche (cosa già sperimentata dallo studio nipponico nel recente La principessa splendente).
I disegni seguono lo stile della ligne claire, linguaggio grafico tipico dei fumetti franco-belga che predilige l’uso di composizioni facciali minimaliste e di un’immagine nitida, luminosa e di facile leggibilità. Le linee tracciate dalla luce sono secche e radenti, le forme raramente tondeggianti, gli occhi rappresentati da un semplice punto e le sagome uniformate a questa purezza grafica dal disarmante potere narrativo.
Se la presenza di questi elementi potrebbe far storcere il naso ai puristi amanti dello Studio Ghibli, famoso per uno stile praticamente agli antipodi con quello della bande dessinée, va detto che la mano della casa d’animazione giapponese si mostra continuamente tramite piccole influenze stilistiche che arricchiscono l’immagine senza mai deturparne la visione originale. Infatti i disegni sono semplici, in armonia con lo stile dalla matrice franco-belga, ma le animazioni e i dettagli negli oggetti e negli animali gridano a gran voce “Ghibli”, donandoci delle immagini ricche di poesia e di bellezza.
Visivamente La Tartaruga Rossa è l’equivalente cinematografico di una tavola di Craig Thompson (autore famoso per la graphic novel Blankets che deve molto al fumetto francese): volti semplici ma dalla grande espressività, oggetti fisici che vengono traslati fino a diventare qualcosa di trascendentale, e le mani, mani che con un solo movimento riescono a trasmettere più di quanto riuscirebbero a fare mille parole; questo grazie anche all’uso dell’animationalytique (tecnica che usa dei movimenti fatti da attori in carne e ossa come base per l’animazione, similmente al rotoscopio).
Altra componente fondamentale che costituisce il linguaggio della pellicola è la composizione di ogni scena e la distanza della camera dai personaggi; questa infatti indugia sui volti, mantenendosi lontana per la maggior parte del film. Questa sapiente collocazione del nostro punto di vista sembra quasi comunicarci il senso di solitudine dei protagonisti, e, soprattutto nelle prime scene del naufragio, quanto l’uomo sia piccolo se confrontato alla natura, una natura bella, piena di vita, ma pericolosa e che, nonostante le varie riprese panoramiche, riesce comunque ad assumere un aspetto claustrofobico.
A mostrarci nella sua vera brutalità questo binomio tipico della condizione umana è la vera protagonista della pellicola e sua chiave di lettura: l’acqua. La vediamo come simbolo di vita, ma al tempo stesso come manifestazione di una natura matrigna che ci porta al mondo senza una ragione, e senza ragione da esso ci strappa. Durante la tempesta, l’acqua viene realizzata con una cura meticolosa, disegnata onda per onda e con dei movimenti dalla fluidità straordinaria, mentre invece, nei momenti di stasi, diventa una semplice linea luminosa, netta e perfetta nella sua semplicità (dove c’è movimento vediamo la mano del ghibli, dove c’è stasi vediamo la purezza dello stile francese). Non è solamente la forza che guida la vita dei nostri protagonisti, e per estensione anche la nostra, è essa stessa la vita, e il simbolo di ciò che chiamiamo libertà, o meglio, libertà radicale (come la definiva Jean-Paul Sartre). I protagonisti, e di conseguenza anche noi, sono condannati ad essere liberi, a essere l’insieme delle proprie scelte, e nonostante la corrente possa muoversi in senso opposto, questa rimane solo acqua, non una forza inarrestabile e a noi sempre avversa, ma un mezzo in cui muoverci.
In definitiva, questa pellicola diretta de Wit (e suo primo lungometraggio) si dimostra poetica, semplice e dalla potenza disarmante. Sebbene non sia esente da difetti (troppi tagli sul nero, animazione 3D non sempre perfetta e un ritmo a tratti lento) e non rappresenti il punto più alto raggiunto dallo Studio Ghibli, La Tartaruga Rossa rimane un’opera dal grande valore artistico e che merita più di un’attenta visione. Il film arriverà nelle sale italiane grazie a BiM Distribuzione per una release limitata dal 27 al 29 marzo; vi consigliamo di non perdervelo.
La Tartaruga Rossa: lo studio Ghibli torna con una delicata allegoria (recensione)
Lo Studio Ghibli torna con una meravigliosa coproduzione che, tra animazione 3D, "ligne claire" e animationalytique, ci fa perdere in un mondo poetico.