Era il 1972. Il ’68 era passato depositando i semi di una generazione ribelle e confusa, creativa e strampalata, su un trentennio – gli anni ’70/’90 – che avrebbero avuto il compito di scegliere se far germogliare gli input della contestazione di massa oppure sopprimerli. Ovviamente non si scelse né l’una né l’altra strada ma quella di far decantare la “spinta dal basso” (parolaccia ormai desueta e perlopiù insignificante) e adottare alcune di quelle parole d’ordine per svuotarle e gettare le basi di un mondo nuovo, ma non esattamente nella direzione auspicata dai sessantottini i quali, alla fine di questo processo, sconfitti, vennero relegati fuori dalla storia come “sessantottardi”. Non solo aveva vinto la restaurazione ma si stavano, si scoprirà in seguito, introducendo modelli economici, sociali e finanziari nuovi che avrebbero portato dritti verso il mondo che conosciamo ora dove, ad esempio, la limitazione delle libertà o la perdita del lavoro sarebbero state descritte con parole dolci, innocue e rassicuranti, come opportunità e flessibilità. Stiamo necessariamente tagliando con l’accetta blocchi storici e termini, anche perché qui non tocca a noi né ci interessa volgere lo sguardo a quei processi con le categorie morali o di valore, né tantomeno con quelle storiografiche o politiche. Qui ci interessa soltanto collocare nel tempo, se vogliamo anche grossolanamente, quel 1972.
Era quindi il 1972, preistoria. Era l’anno in cui uscì Il fascino discreto della borghesia (Le charme discret de la bourgeoisie il titolo originale) di Luis Buñuel, che ora potete trovare in una nuova edizione DVD curata da CG Entertainment. Buñuel, regista anticlericale e antimilitarista per eccellenza, criticò il Sessantotto non perché non fosse d’accordo con la ribellione anti-sistema ma perché, secondo lui, quel movimento aveva sostanzialmente prodotto soltanto chiacchiere e nessun risultato reale. Ma quale che fosse la sua visione del mondo e di società, è bene ricordare che Buñuel, forse la punta dell’iceberg del cinema surrealista, fu colui che nel 1929 girò insieme a Salvador Dalì Un chien andalou: una sorta di manifesto di quella corrente, tra i più citati e studiati nella storia della settima arte. La sequenza più celebre, quella della lama che taglia l’occhio per significare di non fermarsi alla vista fisica, quindi alle apparenze, ma “leggere” il mondo affidandosi al linguaggio “primitivo” dell’inconscio sarà la stella polare della sua cinematografia e, potremmo dire, lasciata in eredità in primis alla settima arte, ma anche alla letteratura e come contributo alla psicoanalisi. Sarà forse perché riteniamo che sia tra i registi di cui non si abbia sufficiente memoria e riconoscimento, ma ci piace citare Marco Ferreri tra coloro che in Italia rappresentarono magistralmente in qualche passaggio la “filosofia cinematografica” di Buñuel. Salvo avere poi uno stile proprio, contraddistinto, connotato e da annoverare senza ombra di dubbio tra i registi che hanno fatto grande il cinema. Potrebbe forse non essere un caso nella sceneggiatura di La cagna (1972) Ferreri si sia avvalso anche di quel Jean-Claude Carrière autore degli script di tanti dei film di Luis Buñuel, tra cui lo stesso Il fascino discreto della borghesia. Il film, come parte significativa della produzione del regista spagnolo, riprende i temi a lui cari dell’anti clericalismo e anti militarismo. A settant’anni suonati Buñuel ( 22 febbraio 1900 – 29 luglio 1983) ha ancora voglia ed energie per portare sul grande schermo lo spaccato di una borghesia che sopravvive a se stessa facendo leva sulla superficialità, sull’inganno e soprattutto sui ‘giochi di ruolo’ che attribuiscono il potere non per quello che si è ma per il posto che si occupa nella scala sociale. Il taglio è grottesco, esilarante. La trama minimale come i protagonisti, a cui non interessa che il loro senso del ridicolo non abbia confini ma soltanto essere allo stesso tempo artefici ed esecutori di un moto perpetuo del nulla che li caratterizza, li fa sopravvivere e li rigenera. Senza addentrarci nelle descrizione di una trama che toglierebbe il gusto e il piacere del grottesco spinto fino all’ennesima potenza, diciamo solo che lo schema della pellicola rappresenta un gruppo composto da varie figure della classe dirigente dedito ad incontri gastronomici conviviali ma che ogni volta che si siede a tavola non riesce a mangiare a causa di un evento inatteso e sorprendente. Se nel suo ben più perturbante El Angel Exterminador il cineasta raccontava una prigione metafisica ed esistenziale, ora l’oggetto del suo interesse è l’incapacità di godere del vantaggio sociale, in un sadico gioco autoriale. Il cast è di prima grandezza, a cominciare da Milena Vikotic, attrice italiana che ha avuto il privilegio di lavorare con Buñuel anche in uno dei suoi ultimi film (sebbene con un ruolo minore). Privilegio toccato anche ad Adriana Asti (Il fantasma della libertà) e Franco Nero (Tristana). Completano il cast Fernando Rey, Paul Frankeur, Delphine Seyrig, Michel Piccoli, Bulle Ogier, Stéphane Audran, Jean-Pierre Cassel e Francois Maistre.
Era il 1972. In Italia usciva il primo album di Claudio Lolli, Aspettando Godot, dove era inserita la canzone Borghesia (Vecchia piccola borghesia/per piccina che tu sia/non so dire se fai più rabbia/pena schifo o malinconia). Archeologia sociale (e musicale) a cui Buñuel è sopravvissuto grazie al cinema. Per nostra fortuna. Nel 1973 Il fascino discreto della borgesia vinse l’Oscar nella categoria miglior film straniero (Francia). Buñuel disse più o meno di essere stato votato da duemilacinquecento idioti e per questo motivo il risultato, per quanto imprevedibile, fu democratico. Chissà cosa avrebbe detto oggi, quando al Dolby Theatre si prendono letteralmente fischi per fiaschi.
Il fascino discreto della borghesia: in DVD il classico di Buñuel (recensione)
La pellicola con cui il padre del surrealismo cinematografico torna a criticare la società borghese è disponibile in una nuova edizione home video.