Nel maggio del 2013, in un’intervista al New York Times, Guy-Manuel de Homem-Christo, (componente e co-fondatore del celebre duo elettronico dei Daft Punk) confessò senza mezzi termini che “Il fantasma del palcoscenico è il nostro film preferito, la vera origine di quello che siamo diventati artisticamente”. Che per molti, ancora oggi, il musical del 1974 di Brian De Palma sia poco conosciuto non è affatto una sorpresa: la storia del cinema è piena zeppa di film considerati minori che con il tempo si scoprono precursori e seminali. Dall’altra parte all’epoca, con già sette lungometraggi alle spalle (e da lì a breve con il successo mondiale che avrebbe ottenuto con Carrie – Lo sguardo di Satana) per De Palma quel Phantom of the Paradise rappresentava a tutti gli effetti una parentesi coraggiosa e personalissima: senza dubbio il capitolo più libero e creativo della sua intera carriera da regista. Un lavoro che ora possiamo finalmente recuperare in un’ottima edizione blu-ray grazie a CG Entertainment.
Fra il tragico e il grottesco
La vicenda di Winslow Leach (William Finley), un giovane compositore e cantautore la cui opera pop basata sul Faust di Goethe viene rubata dal potente e influente produttore discografico Swan (Paul Williams) è l’incipit che genera una rocambolesca fuga in un genere che potremmo provare a definire come slapstick musical. Il personaggio di Leach viene umiliato e sfigurato da un’industria musicale che lo riduce in un fantasma mascherato recluso e costretto a comporre musiche per Swan e per la cantante Phoenix (Jessica Harper): un patto satanico che ricorda appunto quello stipulato dal Faust. L’intreccio piacevolissimo fra tragedia e grottesco viene veicolato dallo sguardo di un Brian De Palma che appare smagliante e visionario come non mai, capace di contaminare realismo e caricatura, parodia musicale e satira sociale. Nulla o poco a che vedere con il più fortunato Rocky Horror Picture Show (che uscì al cinema l’anno dopo) nel quale a fare da padrone erano la coralità delle coreografie, le musiche memorabili e una coerenza narrativa tipica dei b-horror movie. Ne Il fantasma del palcoscenico invece ogni modello insegue e supera quello precedente con un immaginario indistinguibile e inafferrabile, capace di trasformarsi e mutare di continuo: fissarlo, coglierlo a pieno e decifrarlo nella sua moltitudine di frammenti tematici rimane ancora oggi un’operazione non facile e affatto scontata.
I riferimenti classici e moderni
Riferimenti e omaggi infatti si sprecano: in una sola ora e mezza di visione Il Fantasma del Palcoscenico ripercorre un numero indefinito di riferimenti letterari, filmici e musicali. C’è ovviamente il Faust di Goethe esplicitamente citato fin dall’inizio così come Il Fantasma dell’Opera di Gaston Leroux, ma fanno capolino anche Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde e il Frankenstein di Mary Shelley. Cinematograficamente parlando invece il bagaglio di citazioni è ancora più ingombrante: da Murnau a Tod Browning, dal Wiene del Il gabinetto del dottor Caligari fino all’Hitchcock di Pysco e de La donna che visse due volte, senza dimenticare l’omaggio, in almeno un paio di scene, a L’infernale Quinlan di Orson Welles. Il tutto è immerso poi splendidamente nella colonna sonora scritta proprio da Paul Williams che regala a Brian De Palma la possibilità di fare più di una parodia azzeccatissima dei gruppi musicali in voga all’epoca: così i Beach Bums sono in realtà i Beach Boys e gli Undead non possono che strizzare l’occhio ai Kiss. Se ci pensiamo bene però la presa in giro è sistemica e non risparmia nessuno: perché se in fondo Winslow Leach è la macchietta del cantautore anni ‘70, il personaggio di Beef (Gerrit Graham) scimmiotta in modo irresistibile il glam rock e tutte le ambiguità annesse e connesse.
Un congegno diabolico
Eppure la profondità iconica de Il Fantasma del palcoscenico non deve farci pensare solo a un divertissement senza soluzioni di continuità. L’impianto congegnato da De Palma è molto più diabolico perché sa affondare il colpo in quella industria musicale che già nei primi anni ‘70 teneva in scacco artisti e pubblico, pianificando mode e ascolti con astute e spietate operazioni marketing. Il leggendario patto con il diavolo del Faust viene aggiornato da De Palma in un più burocratico contratto discografico che sfrutta da una parte le ambizioni dei giovani talenti e dall’altra i desideri di un pubblico sempre più massificato e manovrabile. Le audizioni delle giovani cantanti nella casa-castello di Swan ricordano quelle di un talent-show dei giorni nostri e la stessa Phoenix, l’unico personaggio che sa esprimere spontaneità e purezza, finisce anch’essa costretta a corrompersi pur di avere un briciolo di quel successo che sa promettere solo l’olimpo del rock.
A pensarci bene non ci sono personaggi buoni o cattivi ne Il fantasma dell’opera. Winslow Leach, Phoenix, Swan, Beef e lo stesso pubblico del “Paradiso” sono solo diversi ingranaggi dello stesso grande meccanismo, quello dello show-business, con ognuno di essi che riveste un ruolo uguale e speculare al fine ultimo di mercificare il mondo dello spettacolo. E in fondo, universalizzando questo approccio, il film di De Palma ci restituisce qualcosa di più radicale e notevole: un esercizio ironico (e iconico) di critica al potere, quello delle immagini e quello della musica. Un affresco intelligentemente kitsch che ancora oggi appare tanto prezioso quanto attuale. Un film immancabile nella vostra collezione di blu-ray.