Maysaloun Hamoud arriva alla conferenza stampa per la promozione del suo primo lungometraggio, In Between – Libere, Disobbedienti, Innamorate, bellissima e con passo deciso: tubino nero, chiodo in pelle, rossetto fucsia. Proprio come le protagoniste del suo film, intende sfatare ogni mito e scardinare ogni pregiudizio occidentale nei confronti dei paesi arabi. Con determinata gentilezza preferisce non rispondere alla domanda di un giornalista che le chiede come procede il processo di islamizzazione delle donne in Palestina. Messo il punto e specificato che è a Roma per parlare del suo film, inizia a rispondere alle nostre domande e a quelle degli altri giornalisti con disponibilità e accuratezza.
Il film è un poetico inno alla solidarietà femminile, ma è anche la presa di coscienza che il prezzo da pagare per l’emancipazione è la solitudine. è davvero così?
Ogni decisione ha il suo prezzo e ogni presa di posizione la sua conseguenza. Io vorrei credere che l’amore giusto arriva solo se siamo sinceri con noi stessi. Quindi sì,vediamo che alla fine le tre protagoniste sono ferme e rivolgono lo sguardo verso un punto lontano, ma in realtà sono unite come fossero una sola donna, in armonia con se stesse e il loro genere. Credo che la solitudine sia un passaggio necessario ma certamente momentaneo.
Come nasce il film e quale è stato il suo l’intento fin da subito?
È un invito alla emancipazione, ma non è solo rivolto alle ragazze palestinesi ma a quelle di tutto mondo. Perché la società maschilista e patriarcale che vediamo nel film non è ristretta solo alla società palestinese, ma possiamo osservarla in quasi tutte le società odierne. Il film nasce in maniera istintiva, perché la storia stessa del film fa parte anche della mia vita in quanto donna palestinese. Ma è anche parte dell’ambiente underground palestinese che è presente e reale ma resta invisibile. Era molto importante per me parlare di questa realtà, di questo mondo, di questi tabù di cui non si parla solitamente, né attraverso il cinema né attraverso gli altri canali di informazione.
Quali sono state le reazioni al film, considerando il pubblico eterogeneo a cui è rivolto e il paese in cui nasce, dove i conflitti sociali e quelli politici si favoriscono a vicenda?
La reazione è stata molto diversa per la società palestinese e per quella israeliana all’interno dello stesso paese. Lo spettatore inoltre è abituato a vedere tantissimi generi diversi di cinema, quindi una parte di questi spettatori ha avuto un momento di confusione: non ha capito più se questo era una specie di documentario o una finzione, un film, perché il film è molto realistico, affronta la vita quotidiana dei personaggi con molti dettagli e riferimenti precisi. Probabilmente è per questo che alcuni lo hanno visto come se fosse un attacco, come se volesse mettere in cattiva luce la società, la religione. Tra questi chiaramente ci sono i fondamentalisti, che non hanno neanche visto il film prima di criticarlo. Ma fortunatamente c’è stata anche un’altra reazione: il fatto che abbiamo toccato certi tabù ha prodotto un dibattito all’interno della società. In un breve tempo sono stati scritti articoli numerosissimi e abbiamo sentito le voci forti delle donne, degli omosessuali, di tutti coloro che si nascondono e che hanno iniziato a parlare di questo film. è stato il nostro più grande risultato.
Avete ricevuto minacce da parte dei fondamentalisti?
Sono arrivate solo nei primi giorni. Devo ammettere che inizialmente hanno suscitato qualche timore, ma poi abbiamo capito che anche questo attacco era una specie di strumentalizzazione politica. Quando poi è nato questo dibattito femminista molto vivace abbiamo capito che in realtà queste minacce non avevano alcuna importanza. Quando ho deciso di fare questo film per me fu molto chiaro ed evidente che sarei stata attaccata. Ma la mia decisione di raccontare queste storie nasceva soprattutto da una convinzione profonda e se io stessa credo in certi ideali e principi non posso prendermi in giro e non rispecchiare nel film quello che sono realmente. Nessuna minaccia poteva superare in importanza le molte lettere ricevute, scritte da donne e omosessuali che non possono esprimersi nella loro stessa società, e si sono invece sentiti a casa in questo film.
A differenza di molto cinema palestinese, sono raccontate storie di un ceto più borghese. È stata una scelta artistica o sociale?
Il cinema palestinese in genere, con poche eccezioni, parla solitamente della lotta, dell’occupazione, del conflitto palestinese/israeliano, quindi vediamo personaggi stereotipati, sia che siano vittime o carnefici. Chiaramente quando in un paese c’è una lotta per l’occupazione questo fa parte della realtà, ma la vita è anche altro e nel cinema dobbiamo raccontare anche questa realtà, come in tutti gli altri paesi del mondo. Il cinema deve rispecchiare i cambiamenti che ci sono in una società. Ed è vero, la nostra società vive una condizione politica difficile, ma dobbiamo fare un passo verso l’individuo unico e porre l’attenzione anche su di esso. È per questo che non trattiamo i personaggi come una nazione, o una massa di persone, ma come individui. Inoltre il film rappresenta una parte ampia della società, vari ceti, persone laiche, fondamentaliste, cristiane, musulmane e così via. Ma effettivamente dei personaggi non importa la religione. Importa invece il vincolo alle tradizioni e ai costumi sociali che diventano ancora più forti della loro appartenenza religiosa. Delle protagoniste vediamo sia la loro vita a Tel Aviv, sia quella nei luoghi da cui provengono: si trovano appunto “in between”, in mezzo, strette in queste due realtà.
Quindi qual è il prezzo che le donne si trovano ancora a dover pagare?
È ancora troppo elevato. Le donne che scelgono di non vivere la vita secondo i costumi tradizionali, ma in maniera autentica, passa un ponte. A un certo punto questo punto crolla. La prima cosa che subisce è che il suo nome viene macchiato, viene stigmatizzata, allontanata dalla famiglia, e non può scegliere chi sposare. Spero che con questo film siamo riuscite a tendere una mano sia a chi non riesce ad uscire da una vita non libera, sia a quelli che privano la libertà agli altri.