Mentre il Lucca Film Festival volge al termine, arriva un altro grande ospite italiano: l’attore e regista Sergio Castellitto. Il protagonista di In Treatment (serie-remake attualmente in onda su Sky Atlantic) e dell’ultimo lavoro di Alex Infascelli Piccoli Crimini Coniugali (in sala in questi giorni) è protagonista di un incontro con la stampa introdotto da Mario Sesti.
Sergio, sei noto per la tua grande capacità di immedesimazione nei personaggi che porti sullo schermo. Cosa ti rimane addosso di questo sforzo psicologico, una volta lasciato un ruolo alle spalle?
La recitazione è un gesto confessionale, così come lo è la psicoterapia. Significa incontrarti a metà strada tra te e un fantasma scritto su una pagina da uno sceneggiatore; è un grande privilegio trovarsi in questa posizione. Ogni tanto però un attore deve ‘liberare il magazzino’ dei propri ruoli, lasciare andare quel che ti è rimasto dei personaggi per rimanere te stesso, nonostante in Europa siamo più abituati all’interpretazione che all’immedesimazione.
In Treatment ha avuto un successo straordinario; perché il pubblico si sta affezionando così tanto alle serie mentre va sempre meno al cinema?
Sento parlare di crisi da quando ho iniziato a lavorare, e in un certo senso va bene, perché la crisi è movimento. Certo, poi ci sono aspetti più pratici. Il cinema è poesia che costa tanti soldi (e a volte costa tanto senza nemmeno esser poesia), ma il cinema italiano si nutre sempre più di ‘trovate’ a discapito del racconto, della drammaturgia, della sostanza.
Per tanti anni i nostri film venivano fatti in funzione del passaggio televisivo in prima serata, e questo condizionava la qualità definitiva, ora invece si va in direzioni sempre più estreme anche in televisione – penso ad esempio a Black Mirror o Breaking Bad – e dovremmo esser capaci di intercettare questo cambiamento. Il cinema è quasi un reperto archeologico, offre spazi narrativi molto ristretti rispetto alla serialità televisiva. Rileggetevi Pasolini oggi, anche per capire dove va il cinema: io non lo facevo da vent’anni ed è una cosa impressionante, il suo giudizio sulle arti e sullo spettacolo ci dice molto anche sull’Italia di oggi.
Com’è possibile che la più grande casa di produzione italiana, la RAI, non riesca ad andare oltre alle stesse cose che si facevano già 30 o 40 anni fa?
Io tengo famiglia…! La RAI è un luogo politico, non è un luogo creativo. Poi il problema è anche il confronto con le TV commerciali negli anni ’80, che ha trascinato tutto su un piano diverso e ha abbassato la qualità. Fortunatamente dopo è arrivata Sky e ‘ho visto la luce’. Io l’ho fatta la TV generalista, ho fatto Padre Pio, ho fatto quel genere di televisione che si accende nei corridoi degli ospedali. Ma poi ho incontrato In Treatment e ho scoperto una tipologia di racconto televisivo totalmente diverso, che ci conferma che qualcosa di differente e innovativo si può fare, si può fare uno show di qualità che arrivi a un grande pubblico.
Da attore e regista, che rapporto ha con le sceneggiature? Cosa ricerca in una storia?
Uno scrittore dovrebbe cercare lo scandalo. ‘Scandalo’ è una parola molto morale, ovviamente, ma intendo che dobbiamo avere il coraggio di andare a cercare un’altra possibilità narrativa, e non quella che ti sembra immediatamente la più sorgiva. Fatevi venire una seconda idea, perché la prima probabilmente qualcuno l’ha già pensata.
Pensate a Black Mirror, quale produttore in Italia vi farebbe vedere Matteo Renzi che si accoppia con una scrofa? Anche per fare 1993 Sky ha avuto bisogno di una stuola infinita di avvocati. È difficile se non impossibile fare qualcosa di coraggioso in Italia.
In In Treatment i personaggi si rivolgono al protagonista perché non sanno con chi parlare. È un problema della nostra società?
Io stesso sono abituato più a fare monologhi che a parlare, il dialogo è quasi un sacrificio che facciamo nel metterci a disposizione. In realtà tutti abbiamo un grande bisogno di ‘salire’, di vedere cosa c’è oltre la collina. Io sono molto fortunato per il mestiere che faccio, ho maneggiato la rappresentazione e l’ipocrisia come lavoro per tutta la carriera, quindi questa cosa mi ha permesso nella vita di avere un grande bisogno di verità, di cose vere.