Se non avete visto La memoria dell’acqua (e di sicuro, pur essendo del 2015, almeno il 90 per cento di voi non lo ha visto perché nelle sale la distribuzione è spietata) è giunto il momento di recuperarlo nell’edizione DVD appena pubblicata da CG Entertainment.
Patricio Guzmàn continua il suo viaggio inoltrandosi fin dentro le viscere dei peggiori crimini commessi dalla dittatura di Pinochet che dal 1973 al 1990 scrisse una delle pagine peggiori del mondo e soprattutto del Cile, il Paese di Guzmàn. Il regista dopo aver girato Nostalgia della luce (2010) torna nel deserto di Atacama, dove è presente uno dei più grandi osservatori astronomici del globo, e da lì riparte per un viaggio che ci farà scoprire gli indigeni della Patagonia, espiantati dalle loro terre e dalla loro cultura poi sterminati, così come gli oppositori del regime di Pinochet. L’intento di Guzmàn non è politico né ideologico ma il filo conduttore che lega i suoi ultimi due film, sebbene marchi decisamente la sua distanza siderale con l’ex regime cileno, è quello di dare dignità alle vittime. Un’operazione, se vogliamo, un po’ fuori dal tempo, considerando argomenti che spesso, se soltanto accennati, appaiono demodé e generano immediatamente negli interlocutori reazioni di noia, fastidio, insofferenza, se non addirittura il marchio di snobismo di nicchia superato dalla storia. E invece no, perché Guzmàn, e qui risiede un aspetto della sua grandezza, non si vergogna e ha il coraggio di portare sul grande schermo storie e persone che sui libri di storia non appaiono.
La pellicola parte dal ritrovamento nel deserto di un blocco di quarzo risalente a 3mila anni fa e che contiene una goccia d’acqua. L’acqua, presente in quasi tutto il cosmo e portata sulla terra probabilmente dalle comete. L’acqua, l’intermediario tra l’uomo e le stelle. L’acqua da cui è circondato tutto il Cile. Nella Patagonia occidentale la Cordigliera delle Ande scompare nell’acqua e riemerge sotto forma di isole. Un arcipelago di pioggia, un territorio senza tempo. Qui si insediarono i popoli indigeni, quelli che prima di essere colonizzati non avevano nel proprio vocabolario le parole dio e polizia “Perché non ne avevamo bisogno”. Poi arrivarono i colonizzatori, l’esercito e i missionari cattolici. Li vestirono con abiti usati contaminati dai virus della civiltà e cominciarono ad ammalarsi, gli allevatori gli diedero la caccia perché le parti del loro corpo venivano vendute per poche sterline, li indottrinarono con una cultura a loro nuova, sconosciuta, incomprensibile, spersonalizzante. Molti finirono preda dell’alcol e apparvero agli occhi dei colonizzatori come mostri da eliminare. Jemmy Button (chiamato così perché fu pagato con un bottone di madreperla) venne prelevato dalla sua tribù e fu portato dagli inglesi a fare un viaggio esplorativo da cui si produssero le prime mappe del territorio, fino a quel momento sconosciuto. Al suo ritorno tornò a vestirsi secondo le usanze della sua tribù, ricominciò a parlare la sua lingua ma qualcosa in lui si era spezzato, non si sentiva più completamente nei suoi panni e comunicava con difficoltà. Le mappe che contribuì a disegnare permisero di colonizzare definitivamente quelle terre.
“Ogni goccia è un mondo a parte, ogni goccia è un respiro” –Ci dice Guzmàn. Ma siccome “Siamo tutti ruscelli di una stessa acqua”, l’oceano restituisce anche la memoria. Come nel caso del corpo di Marta Ugarte, prima torturata e poi uccisa dal regime di Pinochet e gettata in mare da un elicottero. Guzmàn prova allora a ricostruire gli ultimi minuti di un desaparecido gettato in mare, al quale tra l’altro veniva fissata un rotaia di ferro sul pezzo per ostacolarne il respiro e accelerare la morte ma anche perché il suo peso la lasciasse sprofondare negli abissi senza possibilità che l’oceano potesse restituirne il corpo, così che il mare mantenesse il segreto di quei crimini. Gli esami sul cadavere di Marta Ugarte hanno stabilito che questa macabra operazione non fu effettuata alla perfezione. E allora un uomo ha deciso di immergersi alla ricerca di altri corpi. Non ne ha trovati. Ma ha trovato altre rotaie, ormai consumate e modificate dal tempo e dall’acqua. In una di queste era ancora attaccato un bottone di madreperla, probabilmente appartenente alla camicia della vittima (El botòn de Nàcar il titolo originale della pellicola). Per un bottone di madreperla Jemmy Button perse le sue terre e la sua identità.
La memoria dell’acqua dal punto di vista fisico è una teoria che, seppur affascinante, non è ancora stata provata scientificamente, ma dal punto di vista metafisico e artistico è decisamente una “creatura” del regista cileno. Il montaggio e la sceneggiatura del film (premiata con l’Orso d’argento a Berlino 2015) non danno tregua allo spettatore. Non ci sono vuoti e non c’è nulla di superfluo. Dal punto di vista dell’immagine è il solito Guzmàn: un narratore, un archeologo, un poeta dell’inquadratura. La Storia (con la S maiuscola) di Guzmàn è una partoriente e lui la aiuta far nascere le sue creature, quasi una per una; con onestà intellettuale, con umanità e compassione. Non ingannino gli argomenti trattati dalla filmografia del regista cileno il quale, anche in questo La memoria dell’acqua, va sempre alla ricerca di una speranza, di un indizio o di un appiglio da cui ripartire e da cui ricostruire un mondo nuovo e migliore, dimostrando così di essere in fondo un ottimista viscerale. Le sue stesse narrazioni, che in altre pellicole potrebbero essere, per così dire, “vietate ai minori”, con lui scorrono sui sentieri della leggerezza, sebbene non faccia sconti a nessuno.
“L’acqua scorre ma non dimentica”. Ma a volte, forse, non altrettanto si può dire della vita.
La Memoria dell’Acqua: in DVD il documentario di Guzmàn (recensione)
Finalmente in home video l'illuminante documentario del cineasta cileno.