A Torrematta, sulla costa salentina della Puglia, in un mondo senza adulti, si consuma un’allegoria aspaziale e atemporale della lotta di classe, concretizzata nei volti di una ventina di ragazzi adolescenti divisi in due bande: i Cafoni, figli della terra, capeggiati da Scaleno (Donato Paterno), e i Signori, figli dei ricchi, capitanati da Francisco Marinho (Pasquale Patruno). Con la regia di Davide Barletti e Lorenzo Conte (già dietro la macchina per Fine pena mai), La Guerra dei Cafoni è un adattamento dell’omonimo romanzo di Carlo d’Amicis, che ha curato insieme ai due registi la sceneggiatura. Prodotto da Minimum Fax Media, La Guerra dei Cafoni sarà in sala dal 27 Aprile.
Una guerra dal sapore remoto, di cui ci viene mostrata, nei primi fotogrammi, l’origine antichissima, risalente a un periodo in cui in Puglia si parlava ancora il greco; l’eterno scontro tra ricchi e poveri che si attualizza nel contrasto tra le due bande, opposte sotto quasi tutti i punti di vista. Alle prevedibili differenze visive (l’abbigliamento, il colore della pelle, l’arredamento delle case) si sommano differenze linguistiche (il dialetto strettissimo dei Cafoni contro l’italiano macchiato solo da qualche inflessione dei Signori), tecnologiche, e perfino religiose, con il rifiuto da parte dei Signori di riconoscere il santo protettore dei Cafoni. Un affresco che trasforma la guerra dei Cafoni, da semplice guerra per il predominio, in qualcosa di simile a una guerra etnica. Una lotta di classe condotta secondo i codici d’onore della guerra medievale, con gli strumenti e gli emblemi degli anni settanta, dal flipper all’Ape. Su una rosa di valori cavallereschi (quali l’intoccabilità delle donne), conditi da un fortissimo simbolismo guerresco (bandiere, segnali, gerarchie, nomignoli), le conquiste si concretizzano in una distruzione di simboli volta al predominio di classe e non alla distruzione fisica del nemico. Una situazione statica e identica a se stessa da secoli, sconvolta dall’arrivo di Cugginu (Angelo Pignatelli), il cugino di Scaleno, simbolo del tiranno che giunge a detenere un proprio potere personale alleandosi con gli strati più bassi della società. Per vincere la guerra, infatti, Cugginu introduce violenza fisica, morte, pregiudizio e qualcosa di molto simile all’odio razziale. Entrambe le fazioni arriveranno a rifiutare tutto ciò, svuotando di significato la guerra, necessaria più per definire se stessi in opposizione all’altro che per mutare veramente lo status quo. Una guerra la cui prosecuzione è obbligatoria perché atavica, impossibile da cessare per non tradire il proprio passato. L’insensatezza di odio e violenza emerge dai commenti dei più piccoli e delle donne, primo tra tutti Tonino (un ottimo Piero Dioniso), che apporta elementi di frizzante ironia e di disarmante ingenuità razionale.
Una buona gestione della fotografia e della scenografia ci descrive una Puglia fatta di distese aride e onirici laghi color malachite. Scegliendo la luce piena e sferzante del mezzogiorno, con una sola inquadratura il film è in grado di trasmettere una sensazione di calore. In alternativa, si gira nel buio totale, evocando, con la presentazione di un’unica fonte di luce per l’intera scena, le opere di Caravaggio. Ottima anche la sceneggiatura, che costruisce la trama basandosi su un gioco di specchi e di rimandi, intrecci interni, dialoghi rovesciati, fortissimi simbolismi, e riuscite metafore che spesso sostituiscono l’esplicazione di un concetto. Non sempre brilla, invece, la performance degli attori, eccessivamente caricaturale e poco spontanea nella maggior parte dei casi: gli unici che ci presentano effettivamente un lavoro degno di nota sono Piero Dioniso (Tonino) e Letizia Pia Cartolaro (Mela). Un cast scelto direttamente dalla strada che però non riesce a esprimere in modo fluido ciò che ha da dire. Un film crudo, che rimane sfumato nella sua conclusione, senza chiarire la nuova dinamica istauratasi al termine del film, che se pure pare tornare alla situazione di partenza, sostanzialmente vi si allontana.
La Guerra dei Cafoni: la lotta di classe diventa allegoria (recensione)
Davide Barletti e Lorenzo Conte firmano una pellicola inusuale, in cui due bande di ragazzini impersonificano la sfida tra ricchezza e povertà.