Dopo qualche anno di relativa stasi, la settima arte italiana sta vivendo un particolare fermento, con molti giovani autori e interpreti che negli ultimi due anni iniziano a rivendicare un proprio posto in un’industria tricolore che definire paludosa è un eufemismo. Se molte sorprese sono arrivate dalle sezioni collaterali dell’ultima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, è con Cannes che finiamo per scoprire nuovi nomi che, a dire il vero, non ci sarebbe dispiaciuto trovare in Laguna. Tra questi brilla su tutti il talento di Roberto De Paolis, che, pur avendo già presentato due cortometraggi a Venezia, sceglie la Quinzaine des Réalisateurs per il suo primo lungometraggio Cuori Puri, in questi giorni nella sale italiane. Un debutto folgorante, radicato nella grande tradizione del cinema di denuncia sociale italiano eppure scevro da ogni partigianeria o retorica, asciutto e verista nel suo ritrarre la complessità di un’Italia incapace di rinunciare ai suoi bassi istinti.
Il pericolo di un cuore puro
In una periferia romana degradata e incredibilmente realistica, si incontrano le vite di Stefano (Simone Liberati), ragazzo volenteroso ma prigioniero di un contesto ambientale problematico, e Agnese (Selene Caramazza, al debutto sul grande schermo), neodiciottenne le cui giornate si dividono tra la parrocchia e una presenza materna ingombrante.
Il titolo del film mutua il nome di una comunità cattolica realmente esistente, cui fanno riferimento quei giovani che credono di poter coltivare una maggiore comunione con il proprio dio nell’astinenza dal sesso prematrimoniale. È proprio nei Cuori Puri che, senza troppa convinzione, prova a trovare un’identità la giovane protagonista del film, proprio nel momento in cui sembra incontrare un ragazzo per cui potrebbe provare qualcosa e che è ben lontano dal cercare rifugio nella fede.
La scelta di raccontare la verginità come (presunto) valore non è il vero focus del film, ma un pretesto per mettere lo spettatore davanti a concetti come il compromesso e la necessità di un senso di appartenenza, che in un modo o nell’altro percorrono tutta la durata della pellicola. Che la purezza sia quella di chi sceglie di non ‘sporcarsi’ con i piaceri della carne o quella di chi si arrocca nella propria identità nazionale vedendo negli immigrati (pur raccontati senza alcune retorica) il nemico, rappresenta comunque lo sforzo vano di ricavarsi uno spazio ben definito in un mondo la cui complessità metterà in crisi ogni manicheismo. È proprio qui che giace la grandezza di Cuori Puri: nella sua capacità di mettere in discussione tutto e tutti, di raccontare un paese pieno di contraddizioni che fatica a rinunciare alle sue pulsioni più istintive.
Nessun film ha ritratto così bene l’Italia di questi anni
Roberto De Paolis, che oltre alla regia firma lo script insieme a un team nutrito ed eterogeneo, ha sì studiato cinema e recitazione, ma negli ultimi anni si è principalmente distinto come fotografo. I suoi ‘spettri’ e i suoi cieli capovolti hanno girato il mondo, ma per il debutto registico sceglie la direzione opposta della totale concretezza e immediatezza. Cuori Puri riesce a ritrarre come forse nessun altro film ha saputo fare l’Italia di questi anni, divisa tra impoverimento, assenza di punti di riferimento e paura dell’altro. La straordinarietà dello script sta nella sua capacità di raccontarci le contraddizioni dei protagonisti tenendoci sempre in equilibrio tra empatia e disapprovazione, e così Agnese è una creatura confusa meritevole di protezione ma anche una spietata manipolatrice, Stefano un ragazzo volenteroso costretto a crescere troppo in fretta per prendersi cura di una famiglia irresponsabile ma anche un prepotente pronto a umiliare e derubare un onesto commerciante bangladese, i rom (una presenza collettiva costante tanto da avere un’importanza paragonabile a quella di un personaggio) dei capri espiatori costretti a vivere in baraccopoli ma anche dei criminali violenti e attaccabrighe. Nel film di De Paolis tutti sono degni di pietà eppure tutti sono a modo loro spietati, e la periferia Italiana diventa una terra di nessuno in cui tutti sono allo sbando.
Un linguaggio che riporta alla mente Dolan e Pasolini
Se lo script, che inizialmente sembra procedere in modo troppo sfumato ed erratico, rivela nel finale il grande lavoro preparatorio svolto sin dalle prime scene, il linguaggio cinematografico di De Paolis è sin dall’inizio sorprendentemente maturo, ed è costruito su primissimi piani che riportano alla mente l’intimità di Dolan ma che al contempo rinunciano alla calda bellezza delle inquadrature del canadese. La camera insiste in una posizione ravvicinata al soggetto ma riesce a mantenersi sempre discreta e quasi documentaristica, e mentre l’ampliamento della prospettiva apportato dalle scene nel parcheggio sembra farne il simbolo delle distanze che dividono, la scelta di una ciclicità nella riproposizione in chiusura dell’inseguimento già visto a inizio pellicola, dimostra un’eleganza autoriale che porta il film su un piano decisamente più ambizioso rispetto a quanto non sarebbe stato lecito aspettarsi da un’opera prima.
A una tale meticolosa attenzione alla direzione, che ritroviamo anche in un ritmo che fa scorrere senza tempi morti un metraggio non brevissimo, corrisponde altresì una verità dello sguardo che – con i dovuti distinguo – non può non riportare alla mente le periferie Pasoliniane. Non a caso, la scelta di Selene Caramazza come protagonista della pellicola sembra avere una matrice anch’essa fortemente Pasoliniana.
Un casting a tratti contraddittorio è l’unica vera pecca del film
Il casting della pellicola è il suo aspetto più problematico, ed è in esso che risiedono alcune delle scelte più felici dell’opera ma anche qualche grande errore. Simone Liberati si rivela un protagonista di straordinaria solidità, che con la sua performance naturalissima e intensa contribuisce in modo decisivo a rendere Cuori Puri un lavoro straordinario. Un apporto di natura diversa è quello che dà Selene Caramazza, il cui apparente imbarazzo davanti alla macchina da presa e la cui dizione sporca, fatta di parole mal scandite, accenti cantilenanti e sfumature dialettali, se inizialmente lascia perplessi si rivela poi essere un patrimonio di cui l’opera non avrebbe potuto fare a meno. Se inoltre si considera che, al netto di un piccolo difetto di pronuncia effettivamente presente, un’interpretazione così naïf ma perfetta è frutto di un’attenta ricerca per andare in direzione opposta alle performance scolastiche precedentemente richieste dalle fiction cui ha partecipato, allora non si può che riservare un grandissimo apprezzamento al risultato.
A completare il cast ci sono anche attori di maggiore esperienza, come una Antonella Attili (recentemente vista ne I Peggiori) piuttosto convincente e un magnifico Federico Pacifici nel ruolo dei genitori del protagonista. Il sempre bravo Stefano Fresi, volto noto soprattutto per le commedie di successo, si conferma padrone della scena, ma il suo carisma sicuro, altrove anima dei personaggi, qui ci restituisce un prete dai contorni forse un po’ troppo netti: il suo parroco ruba involontariamente la scena, e l’insieme della pellicola non riesce a trarne beneficio. Barbara Bobulova, sulla cui esperienza non si discute, è in realtà l’unica scelta di casting veramente inadatta al personaggio creato sulla pagina: il suo aspetto attraente, la sua parlata sempre pulita e cristallina e una declamazione fin troppo stentorea sembrano del tutto incompatibili con il profilo della madre di Agnese, una donna sconfitta che cerca rifugio nella Chiesa e insiste affinché la figlia scelga la verginità per avvicinarsi al Signore. Edoardo Pesce infine merita una menzione a parte: la poliedriticità del giovane attore romano è semplicemente straordinaria e gli permette di essere perfettamente a proprio agio con qualsiasi character, dal baby sitter premuroso allo spacciatore di borgata.
In conclusione Cuori Puri è un lavoro che, se risente soprattutto di qualche scelta di casting contraddittoria, si dimostra comunque assolutamente straordinario sotto molti punti di vista, tanto più se si considera che rappresenta per De Paolis un debutto al lungometraggio. Possiamo forse segnalare qualche apparente punto morto intorno ai due terzi della pellicola, quando si ha l’impressione che la sceneggiatura indulga troppo su qualche scelta inconcludente, ma alla luce del finale sono semplicemente momenti nei quali l’autore posiziona intelligentemente i pezzi sulla scacchiera in attesa dello scacco matto finale. De Paolis si trova in una posizione privilegiata rispetto a qualche suo collega: se infatti ha dovuto autoprodursi con la sua Young Films, ha comunque potuto beneficiare della coproduzione di Rai Cinema, e soprattutto è stato (fortunatamente) ben distribuito dalla Cinema Srl di proprietà del padre Valerio De Paolis, lo storico fondatore di BiM Distribuzione. Né la coproduzione né la distribuzione tolgono però nulla al suo talento, e se il prosieguo della sua carriera cinematografica si dimostrerà in continuità col debutto (e magari addirittura migliore) allora potremo dire che il cinema italiano ha trovato un nuovo, grandissimo regista.