“You know you can’t hold me forever, I didn’t sign up with you (…) I’ve finally decided my future lies beyond the yellow brick road”: la sintesi della quinta stagione dello show FX The Americans sta tutta nelle parole contenute nella celeberrima canzone di Elton John Goodbye Yellow Brick Road (inserita non casualmente nel season finale). Ormai Elizabeth e Philip Jennings (la coppia di spie più famosa della TV) non sono più i “cyborg” delle prime stagioni, il desiderio di lasciare alle spalle la vita di agenti sotto copertura del KGB si è ormai materializzato ma congedarsi dalla Madre Russia non è certamente un gioco da ragazzi.
Quest’anno The Americans ha vissuto una sorta di fase di transizione, necessaria a preparare il terreno per la final season.
Le certezze di Philip (Matthew Rhys) ed Elizabeth (Keri Russell) continuano ad essere rimesse in discussione, questa volta in maniera più traumatica: Gabriel (Frank Langella), che per loro rappresenta una figura quasi paterna, decide di ritornare dopo tanti anni in Russia e lasciare l’incarico di coordinamento all’esperta Claudia (Margo Martindale); l’uscita di scena di Gabriel è un bel colpo per i nostri eroi, che non riescono più a gestire serenamente il loro lavoro e il rapporto con i figli Henry (Keidrich Sellati) e Paige (Holly Taylor). Quando però le condizioni per il ritiro sembrano ideali, ecco la doccia fredda: una delle missioni di Philip ha un’evoluzione non sperata e questo costringerà la coppia a rivedere i suoi piani di fuga.
Gli showrunner della serie hanno deciso di utilizzare un profilo più basso rispetto al passato.
Dopo una convincente première, nessuno avrebbe potuto mai pensare di trovarsi di fronte alla stagione in assoluto meno brillante dello show (con sommo fastidio di molti fan). Inutile girarci intorno, rispetto ai suoi altissimi standard The Americans nel 2017 è apparsa un pò sottotono. Indubbiamente il problema principale della serie capitanata da Joe Weisberg e Joel Fields quest’anno è stato quello di procedere col freno a mano tirato in vista della stagione finale: non ci sono stati sviluppi di trama rilevanti, le storylines di alcuni personaggi secondari chiave come Stan Beeman e Oleg Burov (interpretati rispettivamente da Noah Emmerich e Costa Ronin) hanno avuto poco spazio e, per la prima volta in assoluto, c’è stato qualche passaggio a vuoto di troppo nella narrazione difficile da giustificare. Nonostante tutto ciò, The Americans aggiunge un ulteriore tassello al dramma umano vissuto dai coniugi Jennings, mai in crisi come quest’anno; i characters interpretati dagli splendidi Keri Russell e Matthew Rhys sono praticamente arrivati al punto di rottura con il KGB ma, per un gioco più grande di loro, ancora non possono permettersi di poter vivere normalmente la propria vita (d’altronde le loro esistenze non sono mai state normali). Inoltre l’istituzione familiare continua ad essere elemento centrale all’interno dello show, proprio quella famiglia che, senza punti di riferimento stabili e con pressioni psicologiche ingestibili, rischia di sfasciarsi da un momento all’altro: i Jennings provano in tutti i modi a salvare l’unica cosa buona che hanno creato nella loro esperienza negli States ma non riescono proprio ad essere dei genitori esemplari (questo discorso vale però anche per tutte le altre famiglie di The Americans). Secondo il punto di vista di Philip ed Elizabeth, solo un cambiamento radicale potrebbe essere l’unica soluzione per risolvere i loro problemi ma in realtà è già troppo tardi (il rapporto con il figlio Henry è emblematico) e, quando la verità verrà finalmente fuori, potrebbe potenzialmente disintegrare quel piccolo barlume di speranza che anima le nostre spie preferite, sempre più tristi e malinconiche.
The Americans rimane ancora una delle serie più importanti attualmente in onda, anche dopo una stagione in chiaroscuro (da noi, per il momento, è inedita); la speranza è che Weisberg e Fields abbiano le idee ben chiare per dare allo show, con i dieci episodi del sesto e ultimo ciclo programmato per il 2018, quel grande finale che la porterebbe dritta nell’Olimpo di questa Golden Age della serialità contemporanea.